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Post-Punk

Il ritorno dei Gomma

Lo scorso maggio sono usciti i primi due singoli del nuovo album dei Gomma, Guancia a Guancia e Iena. All’inizio della pandemia, Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo, con un post su Facebook, annunciavano di voler trasformare il periodo buio che stavamo vivendo non in delle performance in streaming o dei messaggi motivazionali, ma in un’opportunità per riflettere, scrivere e reagire creando nuova musica.

E’ così che è nato il loro ultimo album, Z***** C****** (spoiler di Paolo!), che, come anticipano già i primi due pezzi, sarà sincero, violento, maturo e più ragionato nella scrittura e nelle emozioni che lo hanno influenzato rispetto a Toska e Sacrosanto.

Guancia a Guancia è un pezzo che ci urla in faccia la brutalità della realtà, quella delle abitudini di tutti i giorni, accostata alla paura e allo scetticismo del periodo in cui è nato l’album. Iena è pieno di rabbia e chitarre esplosive e, in un grido di insofferenza e di aiuto, Ilaria sembra chiederci: ‘ma voi vi fidate della realtà? E come fate?’.

Anche il video di Guancia a Guancia, diretto da Joseph Di Gennaro e Gianluca Fatigati, mette al centro la percezione del tempo, delle emozioni, della realtà, dei ricordi e lega tutto questo alla tecnologia, con un esperimento che affida all’intelligenza artificiale la rielaborazione di tutti i videoclip già pubblicati dalla band.

Abbiamo parlato con il gruppo post-punk casertano di questo video, del nuovo album, del loro Sud, della musica e di alcune particolari sensazioni e loro ci hanno regalato un bel po’ di riflessioni interessanti.

Ciao ragazzi! Prima di tutto, come va in questo periodo? Vi eravate resi conto di quante persone erano lì ad aspettare il vostro ritorno?

Paolo: Non lo so in realtà. Almeno io mi sento come se fossimo arrivati all’ultimo boss di un videogame, sconfitto questo c’è una porta che ci conduce su un palco su cui ci siamo noi che suoniamo, e questo pensiero mi rende felice. Spero solo di avere abbastanza pozioni nello zaino per superare senza problemi questo stronzo. Non penso di essermi chiesto quante persone ci siano dietro quella porta, ma spero di rivedere vecchi e nuovi amici.

Ilaria: Ciao, inizia ad andare meglio anche se la paura che crolli tutto c’è sempre, solo sta iniziando a diventare più semplice gestirla. Non credo ne siamo mai stati in grado, abbiamo avuto sempre questo limite è da ammettere.

Giovanni: Alti e bassi. Per ora stiamo ricevendo un sacco di amore, e questo vuol dire che più di qualcuno è riuscito a empatizzare con la nostra musica, ma un vero contatto potrà essere ristabilito solo con i live.

E quindi state già pensando ai primi live post pandemia o aspetterete che si torni alla ‘normalità’?

Paolo: Ci sto pensando costantemente dall’ultimo live che abbiamo fatto, e non ricordo nemmeno dove eravamo. Questo significa che c’è l’esigenza e la voglia di ricominciare. Il nostro non è un live particolarmente compatibile con delle sedie, se ci pensi quando vuoi organizzare una festa la prima cosa da fare è togliere le sedie nella stanza, ma la voglia di salire un palco è troppo grande. Abbiamo bisogno di suonare e di raccontare questa nuova storia alle persone.

Giovanni: Sarà diverso, ma sarà qualcosa.

Non siete tra le band che, da marzo 2020, hanno fatto di tutto per rimanere in contatto con il pubblico, anzi, in un post su Facebook avete chiaramente espresso il vostro punto di vista, nettamente contrario ai live in streaming e ai messaggi di speranza azzardati che le persone si aspettavano. Voi invece vi siete fermati a pensare, avete scritto, avete suonato e siete riusciti a trasformare in musica e testi i sentimenti di quel periodo. Quali sono state le sensazioni e i pensieri che vi hanno guidato?

Ilaria: Ci siamo allenati, o almeno io l’ho vista così. È stato un intenso addestramento alla guerra che stava iniziando. Era il modo più semplice – e anche che ci viene meglio – per combattere, ma è stato anche antidoto e conseguente cura per me, per certi versi.

Giovanni: Non sono ancora riuscito a interpretare questo periodo storico, ne stiamo ancora uscendo e tardo a metabolizzare tutto. Ci eravamo resi conto che l’unica cosa coerente con noi stessi che potevamo fare era fermarci e ripensare al nostro ruolo, o meglio, al ruolo che la nostra musica avrebbe potuto avere in questo momento. Il risultato è stato un disco molto più “politico” – in senso stretto – dei precedenti, forse meno legato a delle esperienze concrete e più vicino ad una sorta di flusso di pensieri e ragionamenti.

Questa scelta ha confermato il carattere emo/punk della vostra band che si riflette nelle vostre canzoni: nessun perbenismo, tanta insofferenza e provocazione. E per voi cosa vuol dire essere punk?

Ilaria: Avere la cresta ed i polsini con le borchie.

Giovanni: Fare quello che vuoi, come lo vuoi tu, ma esser convinti che sia la cosa giusta. Non credo che oggi possa esistere un punk “non ideologico”. Il resto è tutta estetica.

Il risultato di questo ultimo anno è quindi un album pronto per il lancio, sincero, spietato e senza mezzi termini, come i due singoli che lo anticipano. Com’è stato lavorarci in un periodo difficile per tutti e per voi musicisti in particolare? Avete sentito grandi differenze rispetto al lavoro per gli altri due album?

Matteo: Lavorare in un momento come questo è stato sicuramente una cosa nuova per tutti noi. Almeno per quanto mi riguarda, ho avuto molta difficoltà a fare qualsiasi cosa riguardasse la musica, in generale. A darmi la spinta è stato Giovanni, abbiamo iniziato a scrivere a distanza mandandoci dei provini registrati in camera, è stato un ottimo momento per riprendere a scrivere non potendoci vedere. Scrivere in quel momento ed in quel modo ha preso senso, ed è stato piuttosto rapido. La differenza, invece, l’ho sentita perché non avevo mai scritto delle linee di basso con fuori casa l’apocalisse.

Paolo: Questa pandemia per quanto abbia massacrato tutti, dal punto di vista compositivo ci ha aiutato. Il fatto che tutto il mondo all’improvviso si sia stoppato, che per un attimo abbia rallentato la sua corsa frenetica, ci ha dato la tranquillità necessaria per poter scrivere. Il cambiamento nella scrittura è stato radicale. Sacrosanto, come Toska, è nato nella nostra sala prove,  z….. c…… (ops, spoiler) è nato attraverso uno scambio di demo su Wetransfer. Giovanni ha imparato ad usare un po’ di programmi per registrare tutto da casa, ci siamo adattati, e devo dire che abbiamo sperimentato un nuovo modo di lavorare insieme che ci è risultato molto produttivo. La parola più usata negli ultimi due anni? Smart w.., no dai non la dico.

“Guancia a guancia/ abitudini a sud”: in che rapporto siete con il vostro Sud?

Matteo: Bene bene, dai, tutto a posto.

Giovanni: Amore/odio. Vivere nella provincia al Sud per molti versi vuol dire convivere con un doppio svantaggio. D’altro canto, questo ti permette di avere una prospettiva più onesta sul mondo, anche e soprattutto quello musicale, nel nostro caso. C’è molta meno attenzione sulla scena musicale ma forse questo ci permette di vivere la creatività in modo più libero e meno forzato.
In Italia il mainstream sembra essere polarizzato tra Milano e Roma: vengono tutti da lì o se ne vanno tutti a vivere lì; noi non ne facciamo parte quindi quella dialettica non mi interessa. Il nostro Sud non è nemmeno quello di Napoli che nella sua complessità raccoglie i caratteri della grande città e del vivere spicciolo allo stesso tempo; se mi guardo attorno vedo la periferia, quella vera; credo che i nostri simili abbiano ancora un forte bisogno di essere rappresentati correttamente.

La copertina dei due singoli, così come i video, completano l’immaginario cupo dei due brani. Avete voglia di parlarci un po’ del progetto grafico? Vi siete affidati completamente a Celine Roberti o lo avete ideato insieme?

Giovanni: L’idea è stata sviluppata insieme. Volevamo qualcosa che rappresentasse brutalmente i sentimenti che hanno guidato il disco, sacrificando tutto il resto: la spersonalizzazione, l’idealizzazione del progresso, la ricerca illusoria di nuove abitudini…

Per questo abbiamo inseguito un’idea che graficamente ricordasse i cataloghi commerciali, le pubblicità, le riviste di design/arredamento. Una bella favoletta che abbiamo bisogno di raccontarci per non morire, per fingere che stia andando tutto bene.

Il video di Guancia a Guancia è stato realizzato in una maniera particolare, la descrizione su YouTube è come un pannello esplicativo di un’opera d’arte contemporanea. La percezione distorta dei ricordi causata dall’uso della tecnologia, di cui magari non ci accorgiamo, narrata nel video, e l’estrema chiarezza con cui invece raccontate il periodo di lockdown nella canzone possono sembrare in contrasto, anche se sono collegate. Com’è nata l’idea di questo accostamento brano/ video?

Giovanni: Guancia a guancia ha un testo molto “esplicito” nel suo messaggio, nonostante l’espediente metaforico. Volevamo qualcosa che visivamente evocasse i sentimenti comuni (almeno a noi) del lockdown evitando però un collegamento ‘diretto’. A volte non parlare di un argomento in un modo unidirezionale è il modo migliore per comunicarne l’essenza, penso ad esempio a come vengono evocati gli orrori del fascismo in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini.

Quando Joseph (@pepp.irl che ha diretto il video insieme a Gianluca Fatigati, amici di lunga data) ci ha proposto questa idea ci è sembrata subito la scelta giusta: la distorsione del ricordo passato e la nostalgia per un futuro che non hai mai vissuto, le giornate vuote e la percezione del tempo che corre in sensi opposti. Tutto questo alimentato dalla tecnologia che da tempo contribuisce alla “costruzione dei ricordi”. Il gesto automatico di pubblicare una storia su Instagram o di scattare una foto e immortalare un momento e alla fine chiedersi: Ero davvero io? Erano quelle le mie vere emozioni o erano solo le emozioni che ricordo di aver avuto? Ho creato un ricordo fedele o una falsificazione di quel sentimento?

In un’intervista del 2017 affermavate di non voler fare della musica la vostra professione. Avete cambiato idea?

Giovanni: No. Ma forse è meglio chiarirsi. Non voler fare della musica la mia professione non vuol dire che io non sogni di vivere di questo, di dedicare la mia intera vita a questo. Vuol dire piuttosto rifiutarsi di vivere la musica come un lavoro in senso stretto: non vorrei mai dovermi svegliare al mattino e pensare “ok, oggi devo lavorare, devo scrivere qualcosa”.

Scrivere per noi vuol dire aver bisogno di scrivere; è anche per questo che c’abbiamo messo due anni a far uscire qualcosa.

Di Marika Falcone

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