Un disco ricco, intenso, lungo come si faceva una volta, ma anche originale: “Is not here” è il primo lavoro da solista di Myle, pubblicato di recente e in grado di catturare l’attenzione grazie a 14 brani composti ed eseguiti con cura.
Con la collaborazione di grandi nomi come Colin Edwin, Nicola Manzan, Thøger Lund, per un lavoro che il musicista emiliano definisce “personale e corale”. Ed è una considerazione realista: il feeling che traspare è sempre quello “da band”, ma le storie raccontate e la personalità sono indubbiamente individuali, come si conviene a un disco da songwriter.
L’impronta del cantautorato americano, più ancora che semplicemente anglosassone, si esprime spesso in brani ora elettrici ora più acustici, ora molto fluttuanti e aerei, ora decisamente ancorati a terra da sonorità vibranti e anche ronzanti. Succede anche che ci siano brani che presentano entrambe le facce, come una multicolore “Forget Berlin”, che apre il disco.
C’è anche la voce di una soprano, a un certo punto di “Wintersend”, una delle canzoni più significative di “Is not here”. Diciamo questo non per sottolineare l’attitudine vintage, quanto la propensione a utilizzare qualunque mezzo pur di ottenere l’effetto desiderato. Anche una voce lirica, in fondo non tanto illogica se si pensa che Myle arriva pur sempre dalla terra di Giuseppe Verdi.
C’è l’attitudine al viaggio, mentale o effettivo, che contraddistingue alcune delle tracce. Così come l’esplorazione di argomenti del tutto umani, come la dipendenza sessuale e affettiva (“Honeymoon”), la guerra (“The Game”), il dualismo e le tematiche trans (“Revolution”), la ricerca dell’assoluto (la stessa “Wintersend”), oltre ad altri brani che pescano direttamente dal vissuto dell’artista, anche dai momenti più dolorosi.
In conclusione, un disco davvero molto significativo, sicuramente alieno dalle mode ma profondo e intenso, che merita senza dubbio ascolti approfonditi e ripetuti per essere apprezzato al meglio.