Non so perchè ormai tutta la musica italiana sia per me un grandissimo enigma. Non riesco ad affezionarmi a niente, non riesco a legarmi a niente. Una mia amica cantautrice, che ahimè, nonostante l’amicizia riesco ad ascoltare ben poco mi aveva fatto un discorso delirante sul fatto che troppo spesso “piega” i suoi pezzi a sonorità che le piacciono di meno, per fare in modo che possa rientrare più facilmente nei canoni delle playlist Spotify. E troppo facilmente mi viene da pensare a quando mi padre mi faceva ascoltare i Marlene Kuntz in macchina, era la metà degli anni Novanta. Che cosa penserebbe mio padre oggi delle playlist Spotify? Di questa mia amica che si attacca a regole cosmiche e incredibilmente distanti da me, per una manciata di gloria.
Ecco, i Baseball Gregg non sono così. I Baseball Gregg piacerebbero a mio padre, se solo avessi un modo di farglieli ascoltare che non includa niente di tecnologico. Sono degli alieni in questa scena musicale, che intrecciano folk e alternative rock, che piacerebbero a chi ascolta Stu Larsen tra le montagne, ma anche agli irriducibili del Covo che vogliono pogare e fumare fino a consumarsi tutti i polmoni. Io sono un indeciso e un introverso molto espansivo, e così spesso mi ritrovo a metà tra queste due cose. E vivo l’ultima domenica della mia estate immergendomi in Nevertheless, affondando nella mia vasca da bagno che avrò usato sì e no un paio di volte da quando abito in questo sgabuzzino milanese. In vasca da bagno si può leggere con una concentrazione incredibile tra l’altro, perchè non è saggio avvicinare il cellulare all’acqua.
I Baseball Gregg hanno pubblicato tre EP in attesa di un album in arrivo a fine mese, la raccolta finale, la fine dell’estate che per me è stata scandita da lettura, pizzichi di Joyce e da questi mini dischi che duravano giusto il tempo di raggiungere il lido ferrarese più vicino. Non so neanche bene come sia successo: ma forse mi sono innamorato di un disco italiano (quasi comunque, in realtà italo-californiano), che sfugge a tutte quelle regoline, a tutta quella voglia di gloria e di numeri. Abbiatene cura anche voi.
Incredibile come tantissimi dischi usciti all’inizio dell’estate poi inevitabilmente si perdano nel marasma di impegni, progetti e sentimenti che quel periodo assorbe come poche altre cose. Quando inizia giugno, siamo già proiettati su settembre, tutto ciò che accade in mezzo non è che un limbo: è per questo che d’estate spendiamo i soldi che non possiamo permetterci, che ascolti musica che non ascolteresti mai durante il resto dell’anno (io per primo mi sono sorpreso a cantare Calcutta con gli amici in macchina), ma poi arriva settembre, il primo settembre, e tutto deve tornare inevitabilmente alla normalità. Ed eccomi che di nuovo, affamato e stanco, ho scavato di nuovo nei dischi che mi sono stati inviati, tutti quelli inviati e che tristemente avevo lasciato andare.
Comete è il capitolo definitivo per la band di Bologna che tra sonorità di respiro internazionale che, allo stesso, forti influenze derivanti dalla tradizione cantautorale, mi avrebbero offerto la più malinconica delle estati. E tutto inizia con Senza Peso, che in realtà è anche il titolo di un album immortale dei Marlene Kuntz e ora ho voglia di riascoltarlo, e in realtà le influenze sembrano arrivare anche da quel periodo, quello dei primi anni Duemila in Italia, dove Verdena e urla sotto palco condivano la nostra adolescenza. I Van Dyne sono per noi, che nel frattempo siamo cresciuti, e difficilmente ci siamo scontrati ancora con quella voglia di farci male.
Vi mancheranno tutte le vostre ex, avrete voglia di correre sotto la pioggia, sarete felici di riabbracciare settembre e tutta la musica seria che vi siete persi, perchè questo è un piccolo disco speciale e doloroso che non dovreste lasciare andare.
Ho scoperto una grande verità su me stesso. Il fatto che spesso mi piaccia la musica strumentale e che lo scorso luglio abbia praticamente usurato quel disco di Jon Hopkins che non avevo considerato quando era uscito (uguale a quello precedente, tra l’altro, ma non diciamolo troppo a voce alta) non è perchè sono un’inguaribile intellettuale, ma solo uno schiavo del lavoro. In estate, quest’estate, quando finalmente ho potuto scollarmi da questo dannato computer per un po’, son tornato ad ascoltare le playlist del Miami, tutto quel vergognoso cantautorato pop che riesco a snobbare durante il resto dell’anno. In estate mi piace Ibisco, Margherita Vicario e persino Calcutta. In inverno Jamie XX, le Modern Boxes di Thom York e quel dannato Jon Hopkins.
Questo perchè ascolto mentre lavoro, assorbo tutto, e cerco inconsapevolmente la colonna sonora perfetta per il mio freddo declino verso la pensione minima, se mai ci arriverò. Ed è così che, scavando tra tutti i dischi che mi sono perso durante l’anno, scopro il misterioso The 24 Project, il progetto di Rodolfo Liverani che è un elettrico tuffo nel vuoto. Un viaggio subacqueo di cerchi e suoni, pesci pagliacci alienati e bottiglie di plastica che si incagliano sul fondale marino, emanando bellissimi e tragici riflessi. Il mondo elettronico di atmosfere dilatate e notturne è qui raccolto, a disposizione per gli ascoltatori che ancora non si sono adeguati alla sovrabbondanza musicale e alle dinamiche delle playlist digitali.
Questo disco, uscito in realtà all’inizio dell’estate, pone ufficialmente fine alla mia, ripiombandomi in quel mood di pioggia, autobus e stress da ufficio, lavoro, routine e stranezze. In questo clima anche un disco fantastico sembra una cosa normale, passabile, sarà l’ultimo disco per il quale mi emozionerò fino all’estate prossima. Questo disco è la fine ufficiale dell’estate, e ve lo consiglierei tantissimo, se non ponesse fine ineluttabilmente anche alla vostra.
APE, dopo il successo degli eventi tenutosi in Piazza degli Affari, è pronto per iniziare la stagione più bella dell’anno al Parco Sempione (Arena Civica) a partire da martedì 31 maggio dalle ore 18 all’01. Il concept di questa stagione di APE è “A NEW CLASSIC”, che celebra il decimo anniversario dalla fondazione, creando un ponte tra l’attività che l’associazione ha svolto in passato e quello che ha in programma per il futuro. Una sfida a trovare nuove soluzioni, adattandosi al cambiamento e dialogando con esso.
Nel corso degli anni APE si è consolidata come una delle principali realtà milanesi, creando eventi all’aperto con l’obiettivo di valorizzare l’aggregazione sociale. In questa nuova stagione ritroveremo come sempre l’accesso gratuito, street food e drinks per l’aperitivo, concerti, djset e tanto divertimento. APE promuove da sempre tutte le forme di espressione artistica, coinvolgendo artisti indipendenti e realtà affermate nella creazione di contenuti originali. Ma APE è anche musica e intrattenimento, un luogo di incontro tra novità musicali locali e internazionali, un palco su cui esibirsi per i nuovi talenti, ma soprattutto uno spazio da vivere e condividere insieme.
Il prossimo appuntamento sarà martedì 31 agosto, i Grill Boys si esibiranno live e Aligi si occuperà del DJ set. Eravamo piuttosto curiosie abbiamo fatto qualche domanda ai Grill Boys: risposte stringate ed enigmatiche, ma ce le siamo fatte andar bene in attesa di martedì.
Come avviene il vostro primo incontro? E quando avete capito che sareste diventati i Grill Boys? E come mai questo nome?
Ci conosciamo da quando siamo al liceo. Dopo qualche screzio siamo diventati amici e siamo stati grill Boys dal primo momento. Mentre, per quanto riguarda il nome, Grill significa grigliare, dal glossario della grill grigliare sta per rimorchiare le tipe. Il Nome che divento la nostra maledizione
C’è qualcuno della scena contemporanea a cui fate particolare riferimento, che vi assomiglia per mood o genere?
Riferimenti non li prendiamo da artisti contemporanei. Ci piace rimanere in contatto con altre realtà simili alla nostra, soprattutto con la scena di Roma.
Che poi, qual è il vostro genere? (potete anche inventarvi un nome) E quali sono le vostre influenze musicali? C’è qualcosa che non ci aspetteremmo mai?
Non credo ci sia, un genere che ci contraddistingua, forse è più il tono di comunicazione che è sempre stato unico. L’auto-ironia è una cosa che non è mai esistita nella scena di oggi. Influenze musicali, ognuno dei 3 ha la propria, gio ascolta solo bossanova, Ruben postpunk, e cony….solo Niko pandetta.
E cosa dovremmo aspettarci dal live ad APE?
Non aspettatevi nulla, perché ogni nostro live è a sè stante, se dovremmo trovarci a nostro agio, allora aspettatevi il degenero. Postivo o negativo che sia
E quest’anno è stata piuttosto dura, posso dirlo? Perchè l’estate scorsa c’era ancora il Covid e allora aveva senso che dicessi di no quando mi proponevano le feste in spiaggia, la discoteca e le cene infinite con tutti i compagni dell’università. Potevo dire che mia madre stava male e che quindi non mi fidavo a farmi vivo ai matrimoni, potevo persino evitare i concerti, quelli che non mi interessavano s’intende, gli amici di amici che suonavano al contest della provincia più inculata che possiate immaginare, e tutte quelle cose collaterali che rendono difficile la vita sociale. Questo mondo non è fatto per gli introversi che si ricaricano stando da soli, le vacanze e l’estate in generale per gli introversi dovrebbe essere un ritiro spirituale, solitario e silenzioso, e invece in vacanza gli introversi finisce che si stancano ancora di più.
Ed eccomi qui invece in quest’estate dannata dove se eviti tutto e tutti non sei responsabile per tua madre che sta male, ma sei un coglione che preferisce passare le giornate ad ascoltare dischi e a scriverne, senza vedere nessuno. Ed eccomi qui, in questa cameretta dove sono cresciuto, mia madre che in realtà è morta nel 2018 quando il Covid non c’era nemmeno, a non fare assolutamente niente. Alti momenti di crisi riempirà la prossima ora immediata, un disco che non avevo avuto tempo di ascoltare quando era uscito, e invece ora posso addirittura lasciare in loop tutto il giorno, perchè da fare non ho assolutamente niente. E non c’è titolo più adatto per segnare quest’estate di rifiuti.
Un disco che contiene i primi due anni del progetto musicale, nato nel più complicato dei periodi, e qui rappresentato dalla focus track “Intrisi”, il primo brano, che racchiude in sè tutte le sonorità dell’album: analogiche ed elettroniche, il sound desertico e quello urban, un racconto di una notte all’eccesso, tra luci ed ombre, in cui i momenti di lucidità si mescolano a percezioni incerte. Influenze diverse che si intrecciano, come gli I Hate My Village ma più accessibili, come il rock che ascoltavo al liceo, ma senza sentirmi un coglione. I Dejawood potrebbero essere la mia band preferita, quella per cui in fondo uscirei anche di casa per andarmela a vedere.
Respirate, perchè potreste ritrovare la voglia di vivere. Io che sono un caso davvero disperato ho avuto qualche dubbio a riguardo, quando mi è venuta voglia di concerti, rave, liceali impazziti e addirittura una sbronza. E’ tantissimo che non mi prendo una sbronza, la cosa che più si avvicina è decisamente questo disco.
Cercherò di spiegarvi in breve perchè “La via di un pellegrino” di Tobjah è il disco che mi ha salvato l’estate, e che spero mi terrà qui, in quest’estate quasi perfetta fatta di solitudine e libri, ancora a lungo. Perchè di fatto in estate mi sento sempre un cretino, tutti che fanno questo e quell’altro e che lo postano su Instagram, e io che come uno scemo rimango a Milano a non fare assolutamente niente, a fissare il vuoto e ad amare donne incredibili, prima fra tutte Madame Bovary, ma quest’anno anche con Agnes Grey (bruttina e sottovalutata, lasciatevelo dire) ci ho dato dentro. Mi sento un outsider, mi sento male, mi sento solo. Le mie estati sono sempre così, una catarsi che si conclude a settembre, dove mi preparo ad accumulare nuovo dolore da espiare l’anno prossimo.
E quest’anno, scavando come sempre tra le uscite che mi sono perso durante le mie giornate di macchina, lavoro, ufficio, aperitivo con gli amici e letture distratte e interrotte dalla stanchezza, mi sono incagliato in La via di un pellegrino. Un disco che suona primordiale, sentito, viscerale, un disco primitivo che non rinuncia all’elettronica, in cui Tobjah mi accompagna in quest’estate di solitudine che, inevitabilmente, racconta la mia vita. Era da parecchio che non avevo un legame così adolescenziale con un disco, come quando pensi che ogni parola, ogni nota, parla di me. Mi ricordo come fu con i Verdena, e tutte quelle mattinate ad andare a scuola ad ascoltarli. Con Tobjah è stato esattamente così, è stato la colonna sonora di dolore e noia, anche se la scuola è finita da un pezzo.
Il disco, fuori per l’etichetta indipendente TEGA e già stato anticipato dal singolo “Nuova Stagione”, è un cammino tortuoso tra luce e oscurità, dove attitudine dub, reminiscenze hip hop e atmosfere ambient incontrano la canzone contemporanea. Un nuovo inizio che arriva alla fine del mondo, quando il Covid sembrava ci avesse tolto tutto, senza passare dal via. E in quest’estate che è sembrata la prima normale da un po’, io non ho avuto quasi la forza di uscire di casa.
Non smetterò mai di dirlo: in estate si crea questo strano limbo bellissimo dove si ha l’illusione di avere tempo per fare tutto, e io mi tengo stretta l’illusione di avere il tempo di leggere tantissimo, di ascoltare tutto ciò che voglio, con la concentrazione che mi merito e il vento del mare che mi attacca il sale alla pelle. Voglio le docce infinite e le mattine con i caffè che durano più di una conversazione spicciola con la mia ragazza, non riuscirò ad adeguarmi facilmente, e di nuovo, alla doccia pre ufficio e ai ciao distratti di Emilia che neanche si ricorda della mia esistenza talvolta. Settembre non è mai un nuovo inizio, ma una carneficina dell’ispirazione. A settembre io perdo tutto, il tempo di ascoltare e la voglia di fare qualsiasi cosa.
Ed in questo clima, di libertà estrema e calda prima di una nuova fine, ho scoperto Jali Babou Saho, scavando in chili di mail che mi arrivano tutti i giorni e che prontamente ignoro c’era custodito questo piccolo capolavoro dal titolo Tamalla. Un disco che nasce per un’urgenza artistica dopo l’incontro con il chitarrista Francesco Mascio e che vanta la produzione eccezionale di Riccardo e Daniele Sinigallia. Sei tracce originali, registrate in presa diretta con Maurizio Loffredo, Daniele e Riccardo Sinigallia, presso gli Artigiani studio di Formello; le canzoni spaziano nell’ambito dell’ afro-blues, afro-jazz e world music. Un intreccio di sonorità elettriche e acustiche, in cui le radici della musica mandinka, evolvono in una visione moderna, dando vita ad una interpretazione dell’artista del tutto personale.
Baboucar Saho, in arte Jali Babou Saho, nasce a Banjul, in Gambia, nel 1983. Inizia a suonare la kora fin dalla tenera età, grazie al suo primo maestro, suo padre Jali Jankuba Saho, musicista di fama internazionale, il quale gli trasmette i primi insegnamenti della tradizione dei griot (cantautori dell’Africa). Seguendo le orme paterne, inizia molto presto a esibirsi in numerose occasioni, girando molto sia nel suo paese, che nei paesi vicini come il Senegal.
E quindi eccomi qui, nella mia macchina, immobile nel cuore di agosto, ad ascoltare questo disco che proviene da terre inespolarate, una commistione di suoni e sapori che esplodono e arrivano, come universali, a chiunque. Un portale di relax che si infiltra nel mio petto, e che mi pento di non aver scoperto prima, perchè sarebbe stata una preziosa compagnia in tempi bui. E spero che lo sarà ancora, una volta che arriverà settembre.
No, metto subito le cose in chiaro e quello di Saera non è a tutti gli effetti un disco estivo, quanto piuttosto il mio disco estivo, uno di quelli che avevo segnato su mille post it, salvato in una mail che mi era arrivata e che non avevo più ascoltato, preso dalla frenesia di una vita cittadina che ora che è agosto, mi sembra che non abbia avuto più senso. Questo di Saera è la mia estate sospesa, fatta di temporali estivi, tanta solitudine, tante letture, tutte quelle che non ho fatto durante la mia vita reale, e persino qualche rimpianto. Vorrei solo che qualcuno avesse condiviso con me queste cinque tracce mentre mi muovevo con uno zombie sulle strade incandescenti di Milano, dove mi muovevo in macchina in queste settimane per fare quella o quell’altra cosa.
Perchè questo disco, che è di un pop delicato e incredibilmente ballabile, sembra la colonna sonora indie di qualche blog sperduto su Tumblr, di una festa sulla spiaggia di una puntata di Skam Italia, dove qualcuno ha il cuore irrimediabilmente spezzato. Sappiamo tutti che passarà, che non si può rimanere rotti a diciassette anni, però fa così male lo stesso, perchè niente fa più male a noi millenials come ricordarci la nostra prima cotta estiva, ineluttabilmente finita male. Saera riesce a toccare proprio quelle corde, quelle che ti tengono incollato alle serie per adolescenti anche se ormai hai trent’anni, quelle che ti fanno romanticizzare la tua insulsa routine e soffrire come un cane.
Una scrittura matura e una voce ammaliante, trascinandoci dentro atmosfere chill e avvolgenti: la fine dell’adolescenza, relazioni tossiche e nuove malinconie estive. Un EP che inizia a prendere forma nel 2018 e attraversa tre anni di crisi e domande esistenziali, che suona spensierato e drammatico allo stesso tempo: brani suonati a mezzanotte in una cameretta per far sparire tutto quello che resta intorno, brani sinceri e spesso anche un po’ arrabbiati, un’esigenza artistica di Saera che non poteva che portare il suo nome.
Vorrei scrivere a Saera che mi ha fatto passare una pessima estate sinora, con quelle sue movenze R&B e quella sua voce da bambina che nasconde una potenza che suonerà sempre naturale e facile, invidio tutti quelli a cui le cose sembrano venire naturali. Preparatevi insomma a tirare fuori i traumi del liceo, a rivivere come un tempo la cameretta che avete lasciato a casa dei vostri genitori.
Il gruppo piemontese Madyon ha recentemente pubblicato il nuovo disco “Madyon: Live 3022”. Un concentrato di musica dal vivo che ripercorre la loro carriera e ci prepara a quello che sarà il loro futuro. Noi abbiamo chiesto al frontaman Cristian Barra quali sono le sue 5 cose preferite.
VanillaSky
Si tratta del remake americano del film “Abrelosojos” di Alejandro Amenábar, ma ammetto di averlo scoperto dopo averlo guardato.Ricordo ancora quando nel 2001 mi sedetti al cinema molto titubante, senza grosse aspettative, dopo aver visto un trailer che faceva pensare a tutt’altro genere di film, molto più “normale”. Senza spoilerare niente a chi non l’avesse mai visto, da metà proiezione in avanti ci si trova nel mezzo di un viaggio mentale sconcertante, contornato da una fotografia curatissima e una colonna sonora che passa dai Radiohead ai SigurRòs. Lo riguardo ogni 2/3 anni circa e da vent’anni, ogni volta, il finale mi lascia sempre la stessa sensazione.Sicuramente ciò per la prima volta che mi ha fatto approcciare al genere fantascientifico/cervellotico da cui deriva il mondo che fa da contorno alla nostra musica, e in ultimo l’ambientazione di “MADYON :: LIVE 3022”. Spesso inoltre mi guardo anche attorno per verificare la presenza del mio personale “Supporto Tecnologico”. Questa era per chi l’ha visto.
Scoprire musica e band che non conosce nessuno
Grazie ai correlati sulle piattaforme di streaming, oggi non è così difficile. Basta essere ben disposti e propensi ad accettare il nuovo senza essere condizionati dai numeri. Ascolto band che fanno numeri piccoli, come quelli dei Madyon, e alcune loro canzoni a casa mia o nella mia macchina sono delle vere e proprie hit. Ne volete una prova? Provate ad ascoltare“Oh The Silence”degliOctober Drift, piuttostoche“Hostages”deiThe Howl And The Hum. Ah, e se vi piacciono le loro canzoni, scriveteglielo sui social, non essendo superstar internazionali vi risponderanno, esattamente come facciamo noi.
Trasformare un’idea ambiziosa in totale realtà.
Di mezzo ci sono i sacrifici, il tempo rubato agli affetti, le frustrazioni e la stanchezza… ma quando vedi concretizzata l’idea che mesi prima era soltanto un pensiero, è una delle cose più soddisfacenti della vita. Il 100% però lo si raggiunge soltanto se ciò che si è creato è esattamente corrispondente a ciò che si era immaginato, in tutti i suoi microscopici dettagli. Nel caso dei Madyon non parlo soltanto di suoni e musica ma anche del concept, dell’immagine, degli abiti, insomma di tutto il mondo che avevo in testa.
Non sono molto bravo a delegare, anche perché in passato ho avuto brutte esperienze in merito alla qualità dei risultati ottenuti. E così ogni singolo prodotto di concetto, di grafica, audio e video legato alla band, passa fisicamente dalle mie mani. Tante volte è snervante, soprattutto perché la stanchezza in certi momenti ti fa pensare “Chi me l’ha fatto fare?”oppure “Chissà cosa stanno facendo gli altri mentre io sono qua a sgobbare per tutti”. Ma la verità è che non lo sto facendo per nessun altro se non per me stesso. Lo sto facendo per ottenere quella sensazione impagabile che si ha quando si guarda ciò che si è realizzato con le proprie mani e ci si accorge che si tratta di un risultato al livello delle referenze che si avevamo in partenza. Quella sensazione che ti permette di guardarti allo specchio pensando “ok, non sono un mediocre”.E credetemi: saper suonare uno strumento o cantare nel caso di progetti di questo tipo rappresenta una percentuale bassissima. Forse nemmeno il 10% del totale. Quelle sono competenze che bisogna dare per scontate, come saper cucinare se si vuole aprire un ristorante. Di musicisti e di musica ne è pieno il mondo, credo addirittura che la posizione di ogni musicista sul nostro palco potrebbe essere sostituita da chiunque altro, compresa la mia. Questo perché a far la differenza è tutto il resto di ciò che sta attorno al nome MADYON.
La Formula 1
Vado letteralmente in tachicardia per la Formula 1. Perché? Perché non è il calcio dove ci sono migliaia di squadre e milioni di posti disponibili. In Formula 1 ci sono 10 team e 20 piloti. 20 posti disponibili, non uno di più. Persone con le capacità e l’attitudine di un pilota di caccia, chi più chi meno.
Per anni chiamata la Dormula 1, in questi anni è finalmente rinata grazie a regole e macchine che hanno livellato il gap tra i team e ad una bellissima serie Netflix cheha riportato le attenzioni del mondo sui retroscena dello sport ingegneristico per eccellenza. Uno sport meritocratico. Se vinci il mondiale di Formula 1 non è per merito di un rigore dato. Vinci perché tu e il tuo team siete stati i più bravi a livello analitico. Ah, dimenticavo… tranne l’anno scorso dove all’ultima gara il mio ragazzo è stato derubato del suo ottavo titolo mondiale.Ma non svegliamo il tifoso che è in me. Lo faccio per voi.
Uscire o viaggiare da solo
Amo uscire la sera o fare un viaggio da solo. Trovo che si aprano livelli di analisi interiore molto più profondi, cosa che non sempre può avvenire in gruppo, dove alla fine c’è il bisogno di ricoprire il proprio ruolo. Questo non significa che il viaggio o la serata debbano essere passati in totale silenzio o solitudine, anzi. Si passa dal chiacchierare col proprietario di un pub alle storie di un signore che si trova in viaggio di lavoro in quella zona. Alcune dinamiche sociali non potrebbero scaturire in gruppo poiché lo stesso è spesso un circolo chiuso, non predisposto alla socializzazione.
Un pezzo che segna il ritorno dell’artista bergamasco, a più di un anno di distanza dall’ultimo suo EP “Era Satomi a scrivere i pezzi”.
Il singolo, caratterizzato da sonorità che richiamano alla mente la disco music degli anni 70, racconta i dubbi e la confusione di una generazione alla ricerca di un ipotetico successo che si ritrova schiacciata da troppe cose, a volte utili a volte meno, che la circondano.
Claudio, a cui piace particolarmente cercare sempre nuove strade da percorrere, questa volta prova a farci ballare e allo stesso tempo farci riflettere su noi stessi.
BIO
Claudio Barzetti è un cantautore bergamasco con all’attivo numerose pubblicazioni. Milita in una band rock per anni (Requiem for Paola P.), poi il passaggio verso una svolta da solista dove abbandona le chitarre elettriche e i ritornelli urlati per una nuova strada decisamente più pop e cantautorale.
Il suo esordio arriva nel 2018, con l’uscta dell’EP “Partenze”, album d’esordio che lo vedo addirittura piazzare in top10 nei dischi più venduti di iTunes Alternative Chart Italia. A fine 2018 esce un singolo: “Antonello da Milano”;
il suo videoclip viene rilasciato in anteprima da RockIt e riscuote un ottimo successo.
Nel 2019 è la volta del singolo “La Segreteria” e sarà l’unica produzione del cantante bergamasco. In primavera 2020 invece arriva “Era Satomi a scrivere i pezzi”, il suo secondo EP, dove spicca fra tutti il singolo “Carbonara”.
Ora, a distanza di due anni, Claudio torna per presentarci un singolo dal sapore di “rinascita” e nuove strade da intraprendere con la classica leggerezza i chi non si preoccupa più di tutto ma neanche di nulla