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Indie Pop

Riscoprire sé stessi con Millepiani

C’è da dire che non è certo roba di tutti i giorni imbattersi in un lavoro così semplice e, allo stesso tempo, estremamente complesso come quello di Millepiani, cantautore toscano che da qualche anno a questa parte sta facendo scoprire il suo nome ad amanti del cantautorato e, in generale, a chiunque abbia un debole per la musica che “non ha smesso di dire” qualcosa.

Sì, perché oggi più che mai sembra quasi di trovarci incastrati in una dimensione che vuole privarci della contemplazione del presente e, allo stesso tempo, della consapevolezza di un passato che diviene necessaria per sbarcare nel futuro: ecco perché, forse, a Millepiani dev’essere sembrato opportuno riprendere il filo del discorso laddove si era interrotto (e cioè, con la pubblicazione di “Eclissi e Albedo”, il suo primo disco da solista) riafferrando le fila di un approccio che fa della ricerca e del “dubbio” il motore perpetuo della sua rincorsa ad un possibile “significato” delle cose.

“Krakaota” diventa così l’incendio e la distruzione di ogni luogo comune sul “brano pop del venerdì”: ritmi incessanti ma gentili che fanno da trampolino a sonorità elettroniche pronte a miscelarsi con un afflato acustico che esplode, nel finale, in un solo chitarristico estremamente rock’n’roll; poi, c’è da dire che la parte del protagonista la recita la voce e, ancor più che la voce, la penna di Millepiani: c’è la sensazione che il cantautore toscano sia alla ricerca di un “centro di gravità permanente” che qui diventa proprio la tabula rasa creata dall’esplosione di ogni certezza, e dalla consapevolezza di una necessaria ricostruzione che possa essere libera da atavici sofismi e dilemmi.

Un “Krakatoa” musicale che regala a chi segue la canzone d’autore la sensazione di non essere davvero così solo: tutt’altro.

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Comunicato stampa

Le inaspettate vie di Federico Cacciatori: fuori ora il videoclip di “Dipende da noi”

Dopo un percorso fatto di ricerca e capace di dimostrare una certa attitudine al colpo di scena, Federico Cacciatori (compositore toscano che qui sulle nostre colonne ha già trovato spazio in passato) si prepara alla pubblicazione del suo nuovo disco in un modo certamente inaspettato: in beffe ad ogni regola della discografia e mettendosi “in tasca” tutti i consigli della “buona norma” del mercato, Cacciatori anticipa la curiosità di ascoltatori e addetti al settore aprendo uno spioncino sul suo prossimo album grazie al videoclip di “Dipende da noi“, ultimo singolo estratto dal disco prima della release prevista per il prossimo weekend, pubblicato oggi su You Tube:

“Dipende da noi non è solo una canzone… È un messaggio per il mondo. Il clima sta cambiando e noi non stiamo facendo niente per aiutarlo. Dipende da noi e da ogni singolo gesto che nella vita di tutti i giorni possiamo fare! A proposito di piccoli gesti, vorresti prendere parte anche tu alla campagna pubblicitaria del nuovo singolo in uscita questo venerdì? Come? Con un semplice piccolo gesto, manda un vocale o un video al mio numero mentre stai svolgendo una delle tue attività di tutti i giorni e dici: DIPENDE DA NOI! Bello forte, mi raccomando! Attiriamo l’attenzione di chi ha o dovrebbe avere i mezzi e le competenze per cambiare veramente qualcosa, facciamolo insieme senza imbrattare quadri!”

Ma non è questa l’unica novità delle nuove pubblicazioni di Federico; Cacciatori ha deciso, infatti, di far sbarcare il suo prossimo disco su una piattaforma diversa da quelle consuete, in un atto di sfida e di curiosa ricerca di nuovi orizzonti, fatti anche per sorprendere l’ascoltatore e svincolarlo dalle sue posizioni di comodo: non è un caso che il compositore abbia scelto, per mettere in “circolo” le sue nuove opere, la piattaforma OnlyFans, un modo per sperimentare nuove strade e sfruttare l’alta qualità che il servizio assicura alla risoluzione audio dei suoi contenuti.

Trovare la musica di cui hai bisogno laddove non l’hai mai cercata: tra una settimana, preparatevi a stupirvi con Federico Cacciatori.

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Rap

Dinamite e tritolo nelle penne degli Smokin’ Velvet

Wo, mamma mia, ma che diamine di garra sale appena premi “play” sul secondo singolo degli Smokin ‘ Velvet, duo ibrido che rotola a passo di groove sulla strada che collega Toscana e Lombardia? Inutile fermarsi a prendere fiato, quando il brano che hai davanti sembra fatto apposto per levarti l’aria – sopratutto se sei tra gli “Scarseez” che i due prendono di mira con la precisione del cecchino. 

C’è proprio una tendenza, nella scrittura degli Smokin‘, a trasformare le parole in esplosioni dinamitarde, in piccole granate artigianali che i due lanciano dalla finestra su strade piene di zombie in giacca e cravatta, o in Vans e pullover, o insomma su “deficienti” deambulanti che popolano la noia degli uffici, delle discoteche, del mercato discografico, dei salotti più o meno bene: una rabbia irrefrenabile che sale dallo stomaco e, una volta che arriva al cervello, prende la forma di una smitragliata di lemmi e vocaboli utili a sottolineare, per l’ennesima volta, la validità del concetto che “la lingua taglia più che la spada”, senza ombra di dubbio.

Gli Smokin’ avevano già dato segno di una certa predisposizione alla dinamite: i due avevano esordito qualche mese, con un progetto interamente curato da loro in prima persona (dalle basi alla realizzazione delle grafiche, in quella modalità completamente “indipendente” tipica dell’hip hop) che in effetti aveva lasciato intendere gli intenti bellicosi; ma in “Scarseez”, beh, la rabbia diventa quasi catartica, sublimata da un approccio ironico che permette alla risata di seppellire tutto ciò che ci fa star male. 

Non c’è censura, non c’è limitazione e allo stesso tempo non c’è eccesso: ciò che in effetti non smette di colpirmi, arrivato al ventesimo ascolto del brano, è proprio l’eleganza e il gusto con il quale Emanuele e Alessio affossano le portaerei avversarie, in una guerra combattuta senza esclusione di colpi ma con la leggerezza della battaglia navale da tavolo; un gioco da ragazzi, insomma, per chi certe ferite se le porta dentro e pare averle rese crepe efficaci a far passare la luce. 

Sempre più curioso di seguire e scoprire ciò che sarà.

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Pop

Fuori dal sepolcro, corre Lazzaro

Devo dire che ho provato fin da subito una certa simpatia per Lazzaro, artista dal nome certamente particolare ma dalla musica ancor più “brillante”: a differenza del personaggio miracoloso, quella di Lazzaro pare una resurrezione avvenuta non per miracolo, ma attraverso un percorso di “auto-consapevolezza” che sembra averlo portato, oggi, a nuove idee, nuove forme.

Forse è da queste rinnovate consapevolezze che deriva la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di “sacerdotale”, di mistico quando comincia “Fears”, con quegli avvolgenti sintetizzatori che lasciano lievitare il brano con una certa forza centrifuga: il testo prende forma, dopotutto, proprio negli spazi che l’orchestrazione lascia al cantato, libero di inalberarsi verso picchi e profondità estreme.

Una cosa simile, in effetti, accade anche in “Oro”, il secondo singolo del tenebroso toscano: se in “Fears” il focus s’incentrava sul concetto di paura (e delle sue relative estensioni), in “Oro” la penna di Lazzaro cuce e taglia il significato di “apparenza”, con una stoccata ben precisa e diretta ad una contemporaneità che, oggi più che mai, ha un disperato bisogno di ritrovarsi proprio al di fuori dell’alone mistificatorio (e affatto mistico) dell’apparenza. 

La scrittura di Lazzaro affascina, è inutile negarlo: sento il richiamo di quella epopea indipendente che in Italia ha trovato i suoi massimi esponenti nei CCCP, ma allo stesso tempo c’è qualcosa nelle scelte “sonore” che richiama agli ambienti del club europeo, con un certo gusto quasi berlinese nella scelta delle atmosfere dei momenti più “trance”.

Vediamo cosa ci riserverà il futuro. Per ora, il presente è vivo e vegeto, si è alzato e cammina.

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Indie Pop

Dammi tre parole #6 – Ottobre

Paroleparoleparoleparole che rimbalzano contro i finestrini di macchine lanciate a tutta velocità verso il fraintendimento, mentre accanto a noi sfilano cortei di significati e di interpretazioni che si azzuffano per farsi strada nella Storia, provando a lasciare un segno. Parole giuste, parole sbagliate; parole che diventano mattoni per costruire case, ma anche per tirare su muri; parole che sono bombe, pronte a fare la guerra o a ritornare al mittente dopo essere state lanciate con troppa superficialità: parole intelligenti, parole che sembrano tali solo a chi le pronuncia, mentre chi le ascolta cerca le parole giuste per risanare lo squarcio. Parole che demoliscono, parole che riparano. Spesso, parole che sembrano altre parole, che pesano una tonnellata per alcuni mentre per altri diventano palloncini a cui aggrapparsi per scomparire da qui. Parole che sono briciole seminate lungo il percorso da bocche sempre pronte a parlare, ma poche volte capaci di mordersi la lingua: se provi a raccoglierle, come un Pollicino curioso, forse potresti addirittura risalire all’origine della Voce, e scoprire che tutto è suono, e che le parole altro non sono che corpi risonanti nell’oscurità del senso.

Parolavocemusica: matrioske che si appartengono, e che restituiscono corpo a ciò che sembra essere solo suono.

Ogni mese, tre parole diverse per dare voce e corpo alla scena che conta, raccogliendo le migliori uscite del mese in una tavola rotonda ad alto quoziente di qualità: flussi di coscienza che diventano occasioni di scoperta, e strumenti utili a restituire un senso a corpi lessicali che, oggi più che mai, paiono scatole vuote

GIONATA

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

Ciao, come va?
Penso che queste tre parole siano al tempo stesso vicine quanto lontane.

Il successo è legato al raggiungimento di un obiettivo e non per forza alla fama. Penso che una persona abbia successo quando si pone degli obiettivi che poi raggiunge, anche semplicemente l’idea di smettere di fumare e poi riuscirci fa di una persona un individuo di successo.
Spesso invece viene associato alla ricchezza, alla fama. Il mio secondo disco, Congratulazioni, in questo senso assume il ruolo di sincere congratulazioni: volevo pubblicare un disco e l’ho fatto e, per quanto mi riguarda, ho già avuto successo. Il mio prossimo obiettivo è fare della musica un lavoro e non importa avere tre milioni di ascoltatori o suonare davanti a centomila persone. Se e quando riuscirò a lavorare solo di musica e potermi pagare la vita senza fare altri lavori, allora avrò ottenuto ancora più successo.

È una questione soggettiva.

Così come è soggettivo il merito: dire che “qualcuno si merita qualcosa” vuol dire avere dei confini (culturali) che definiscono determinati standard che ci fanno dire chi è meritevole e chi no. Sempre relativo alla musica, verrebbe da dire che chi ha studiato uno strumento per dieci anni ha più merito rispetto a un cantante stonato che usa l’autotune e canta sopra delle basi realizzate con dei loop e non ha la minima conoscenza della musica. Ma è qui che nasce l’errore: se ricalcoliamo tutto e ci dimentichiamo delle “regole”, allora non esiste il merito, semplicemente esistono persone che ottengono cose e altre che non le ottengono, seguendo leggi che non conosciamo e che possiamo mettere dentro la scatola delle casualità (e del soldo).
Quindi dico Congratulazioni a tutti, siamo tutti bravi e nessuno lo è veramente, tutto ha significato e proprio per questo niente lo ha.

L’ambizione è, tra le tre parole proposte, quella che preferisco. Per il semplice fatto che è legata alla personalità ed è slegata da costrutti culturali.
Non è giusta o sbagliata, è soltanto una volontà: la volontà è un’altra parola che avrei inserito. Può essere legata al miglioramento personale (vivere in pace con sé stessi e con il mondo) o al raggiungimento di un obiettivo (e qui si lega al successo), ma rimane un aspetto necessario perché senza ambizione siamo solo pezzi di carne vuoti privi di sogni e con niente in cui credere. L’ambizione è necessaria e non dobbiamo esserne schiavi o temerla, dovremmo solo usarla per farci forza e proseguire la nostra strada, fregandocene di tutto.

Congratulazioni a chi ci riesce.

LAZZARO

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

Parto dall’ambizione, perché credo definisca poi cosa intendiamo per successo. È importante avere punti di riferimento alti (altissimi) ai quali mirare, ma sempre cercando di riconoscere i propri limiti. Credo che questo sia la base per una vita a misura d’uomo e, per quanto mi ostini ad essere un’idealista, a volte ho trovato sano anche riformularmi, proprio in quei momenti dove l’ambizione e il sogno erano bellissime fantasie, alimentate da un mondo che insegue una crescita continua, incoscientemente proiettato verso un futuro addolcito da un insensato ottimismo. Insomma, non credo esista IL successo quanto I successi, a seconda delle ambizioni e dei limiti di ciascuno. Sul merito faccio un po’ difficoltà a dire la mia, si rischia di essere antipatici e quindi preferisco rubare le parole di altri, in questo caso di Niccolò Fabi: “Facciamo finta che chi fa successo se lo merita”.

SMOKIN VELVET

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

Il successo è un qualcosa che, per l’epoca in cui viviamo, è quasi mitizzato. Siamo costantemente bombardati da personaggi che ostentano un’immagine di successo, la maggior parte delle volte costruita ad hoc da chi di dovere. Sembra quasi che sia obbligatorio mostrarsi in questo modo, specie in un mondo di influencer e simili.

Noi personalmente il successo non lo perseguiamo direttamente con le nostre intenzioni artistiche, la cosa che ci preme è quella creare arte che possa restare nella testa e nel cuore delle persone, che trasmetta un messaggio che ognuno possa recepire in modo diverso a seconda delle sue esperienze e del suo vissuto. Se l’impegno e il tempo lo concederà, il successo verrà da solo.

I “meriti”, concettualmente, sono soggettivi. Certo, possiamo dire che nei nostri percorsi alcune persone, opere, album, film con cui ci siamo interfacciati abbiano avuto più “meriti” di altri nella nostra formazione, ma ciò non cambia che tutto quello che ci accade, che viviamo e creiamo, accade come conseguenza di azioni nostre, delle persone e dei fatti che ci accadono intorno. La cosa affascinante è quando i fatti accaduti, che siano romanzati o meno, vengono raccontati, e la bellezza del momento in cui qualcuno si ritrova in quello che hai scritto o composto è qualcosa di unico.

L’ambizione è fondamentale per qualsiasi cosa si voglia fare nella vita, sicuramente riuscire a vivere con la musica è una delle imprese più difficili di questi tempi in un paese come l’Italia: tocca costantemente fare compromessi, poter lavorare alla cosa a cui tieni di più può accadere quando torni a casa dopo una giornata di lavoro e le energie sono poche, oppure quando hai a disposizione giornate intere in cui potresti svaccarti completamente e invece ti metti a scrivere musica, ma in entrambi i casi, lo fai sempre con gioia e la voglia di poterti spingere sempre più in là, per superare ogni volta i propri limiti.

BLUNDA

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”. 

Il successo è qualcosa a cui tutti, in fondo, aspirano.

La cosa in cui tutti incappiamo – però –  è che successo voglia dire “grandi numeri”, quando in realtà credo che ogni piccola cosa vada vissuta come un successo, soprattutto in questo lavoro in cui si lavora con le emozioni.

Anche solo poter arrivare ad una persona è un enorme successo, poter in qualche modo condividere un’emozione.

Purtroppo a volte il successo non è conseguente al merito, in qualsiasi ambito. Ci sono tanti artisti là fuori capaci e brillanti che faticano ad emergere in questo mondo troppo pieno di offerta musicale. Però credo anche che alla lunga i meriti vengano sempre riconosciuti, perché la musica appartiene alle persone e alla sincerità con cui si trasmette.

Ciò che non deve mancare mai, in qualsiasi campo della vita, è l’ambizione: il bello di questa nostra esistenza è di non avere realmente limiti, che tutto può essere possibile.

Allora io dico di continuare a sognare e perseverare, volare in alto e mai aver paura del fallimento, perché anche solo mettersi in gioco è il più grande dono e successo che si possa conseguire.

CINUS 

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

Per fare un collegamento logico partirei dall’ambizione, il desiderio di fare qualcosa o portare a termine un progetto. Questo desiderio si collega al merito, al lavoro, alla fatica, al talento, alla determinazione per essere riusciti ad arrivare al proprio oggetto del desiderio. Infine il successo, che senza ingigantirlo di significato, possiamo descriverlo come la buona riuscita di un lavoro che si è fatto e portato a conclusione, indipendentemente dal riscontro, che può essere di grandi o piccole dimensioni. Il successo ha la peculiarità di poter essere un fatto del tutto intimo, personale, il mio successo lo posso raggiungere con i piccoli obiettivi che mi pongo ogni giorno e che riesco a portare a termine, oppure con grandi progetti lavorativi, con l’apprezzamento altrui, che dire, ci sono tanti significati che la parola “successo” può racchiudere. Ma di queste tre la mia preferita è ambizione. Perché il merito lo ottieni sì, con l’impegno, ma anche con l’ambizione. Io ho un’ambizione, ed è quella che mi porta a scrivere musica e a cantare su un palcoscenico, che io me lo meriti dipende dal mio impegno. L’essere qua a rispondere a queste tre parole, questo per me è il successo.

BEATRICE PUCCI

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

Mi viene in mente che il successo non è un percorso lineare e che avere la giusta ambizione in una realtà musicale non semplice è fondamentale per riuscire a crearsi il proprio percorso. Successo poi non è sinonimo di felicità, può essere una soddisfazione momentanea su cui non si può basare tutto.

NUBE

Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.

L’ambizione è fondamentale per riuscire ad arrivare al successo, che però non è, molte volte, relativo al merito ma a dinamiche ben più contorte.

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Indie Pop

Quella crepa dalla quale filtra la luce: è tornata Beatrice Pucci

Chi segue i miei resoconti mensili, sa bene che per Beatrice Pucci ho un debole atavico, che affonda le radici nel primo ascolto che feci di “Figli”, il suo singolo d’esordio pubblicato a maggio scorso e seguito, a distanza di qualche settimana, dalla pubblicazione di “Le colline dell’argento“, il suo disco di debutto pubblicato (e realizzato, cosa da sottolineare) da totale indipendente: un lavoro denso, pieno di spunti di riflessione musicale ed esistenziale, fatto di piccole cose che s’incastrano alla perfezione nella resa di un album che faceva del “non finito”, del “grezzo adamantino” il proprio punto di rifrazione e forza.

Ovvio, dunque, che oggi, all’uscita di “Nero”, il suo primo singolo post-disco, il cuore mi abbia sussultato in petto con la veemenza di chi sta rintanato da un po’ nell’ombra della gabbia toracica, in attesa di un refolo di luce capace di restituire nuova forza ed emozione al muscolo cardiaco; e appena ho premuto “play”, ogni nuvola si è trasformata in burrasca, sciogliendo in pianto quella coltre grigia che, da qualche tempo a questa parte, affossa le esistenze di tutti. Abbiamo bisogno del buio, per brillare: e questo, Beatrice, sembra volerlo dire con tutta la forza che ha, e allo stesso tempo con la serena accettazione di chi ha svelato un arcano, e sa che il mistero non è altro che un gioco d’ombre, in attesa di essere illuminato.

“Nero” ha la potenza catartica di qualcosa che proviene da un altrove, da uno spazio diverso rispetto a quello della quotidianità: una sorta di crepa, di fessura dalla quale – come direbbe Leonard Cohen – la luce filtra e illumina le fattezze di un giardino che è segreto solo per chi non sa cercare davvero; e allora, seguendo le linee arboree di chitarre che dettano il passo del cammino, si finisce col perdersi e volersi perdere tra gli odori di muschio e selva di quell’intricato bosco di emozioni che la vita sa offrire, a chi supera la paura del buio.

Ecco, quella paura, che oggi pare essere la grande fobia di questo nostro tempo sempre impegnato a brillare per non affrontare il timore dell’oscurità, è il farmaco che Beatrice sembra aver individuato per auto-debellare la propria infelicità: accettare che il buio altro non sia che il confine della luce, e viceversa, e che ogni gioia necessita del dolore per capire l’estensione di sé stessa, per sapere di esistere e di essere vera.

Un bel lavoro, che fa innamorare ancora di più chi già da tempo ha giurato amore alla musica di Beatrice.

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Indie Intervista Pop

Un caffé sulla laguna con Scaramuzza

Non è mica facile, e chi legge i resoconti delle mie immersioni nelle profondità della scena lo sa, non è mica facile non farsi prendere dalla “fame d’aria” quando ci si lascia naufragare – un po’ per adrenalinica curiosità, un po’ per una strana forma di personalissimo masochismo – nelle spirali vorticose del vaso di Pandora chiamato volgarmente “release friday“, girone infernale dantesco dal quale il viaggiatore sprovveduto finisce per farsi risucchiare fino all’epicentro di un tifone (della durata di qualche giorno, non che siano fatti per “durare”, i rovesci discografici di oggi…) fatto di ritornelli – se non uguali – simili e simili – se non uguali – disperazioni pop a buon mercato.

Succede quindi che, boccheggiando boccheggiando, ci si imbatta in salvagenti che spesso hanno forme che non ti aspetti, come la dolcissima ballata di Scaramuzza “Sono fatto così”: il cantautore veneziano era già passato nei nostri radar, e incontrarlo di nuovo per me è stato salvifico, una manciata di settimane fa; Marco ha ridato una sistemata al suo abito migliore, e lo ha indossato con la naturalezza di chi sa che la “nudità” è il miglior vestito che possiamo desiderare.

“Sono fatto così”, le partite dell’Inter e la costante ricerca di risposte adatte alle nostre ambizioni: di questo e di altro abbiamo parlato con Marco, nell’intervista che segue.

Marco, è un piacere poterti ritrovare qui, dopo tanti mesi di assenza: ti abbiamo apprezzato, come ricorderai, con il tuo primo EP “Gli invisibili” e oggi siamo ben felici di poter parlare ancora di te. Per rompere il ghiaccio, come stai? Come stai vivendo questo roboante ritorno sulle scene? Qualcosa sembra essere cambiato, in questo tempo di “silenzio”…

Ciao ragazzi, è un piacere ritrovarvi. Sto abbastanza bene, grazie! Vivo   il periodo della pubblicazione con un po’ di stress perché ci sono sempre mille cose da fare, forse dovrei godermelo maggiormente. Ora che mi ci avete fatto pensare proverò a farlo.

Non vedo l’ora di farvi sentire anche gli altri brani perché penso questo primo disco sia stato costruito relazionando tutte le tracce.

“Gli Invisibili” ci aveva colpito, già allora, per la forte presenza del tuo timbro, che nel tuo nuovo singolo “Sono fatto così” sembra prendersi le luci della ribalta in modo ancora più forte, e melodico, lasciando meno spazio all’approccio “narrato”. Quali sono le “direzioni” che hanno guidato, in questi mesi, la tua rigenerazione artistica? C’è qualche artista/progetto in particolare al quale guardi con interesse?

Si, sentivo che in parte avevo l’esigenza di uscire dalla dimensione teatrale e narrativa e quindi la mia ricerca è stata melodica e sonora in questo disco. Penso che l’aspetto teatrale comunque farà sempre parte della mia musica ma questa volta è stato ridimensionato.

In questo momento il progetto di Apice è quello che più mi comunica nel panorama italiano, lo vedo molto vero e coraggioso. Non vuole piacere a tutti, vuole piacere a sé stesso prima di tutto. Penso poi abbia una grandissima scrittura e un bellissimo timbro.

Stai lavorando sulle tue nuove cose con il supporto di un produttore di tutto rispetto, Novecento (alias di Tobia Dalla Puppa, frontman dei Denoise e già produttore di altri nomi interessanti della scena nazionale): com’è stata fin qui l’esperienza con Tobia, e cosa ti ha colpito del suo approccio in studio?

Con Tobia ci siamo trovati bene da subito, ha capito perfettamente quello che volevo comunicare e la modalità con la quale volevo farlo. Penso che Novecento sia un produttore di enorme talento e questo si sente nella ricerca dei suoni che sono stati utilizzati nei sei brani.

Alcune canzoni sono state spogliate completamente e vestite in maniera totalmente diversa, mi sono affidato completamente a lui e questo, secondo me, ha permesso la valorizzazione del progetto.

“Sono fatto così” sembra respirare un’aria di novità che ben fa sperare per il sound del futuro; non è nemmeno un caso, o almeno a noi non sembra tale, che tu abbia deciso di inaugurare il “nuovo corso” con un brano che sa di “cuore aperto”: cosa dobbiamo aspettarci, dal tuo nuovo lavoro in studio?

Penso che ci sarà molto stupore nell’ascoltare i prossimi brani, alcuni sono molto diversi tra di loro a livello di sound, la narrativa però penso sia stata in grado di legare bene tutte le tracce.

Ci saranno brani molto terreni e altri molto più onirici.

Oggi, la scena nazionale sembra sempre più lontana dal mondo che in qualche modo sembri voler frequentare con la tua musica, un mondo fatto di canzoni dalle giuste parole oltreché dalle melodie interessanti che guarda alla canzone d’autore e ad un certo tipo di “teatro-canzone” (se pensiamo a “Gli Invisibili”); ti senti una “mosca bianca”, nel mercato di oggi, o credi che esista una milizie di cantautori capace di “riabilitare” l’interesse nei confronti del cantautorato? 

Non mi sento una mosca bianca, conosco bravissimi cantautori dei quali penso si sentirà parlare nel prossimo futuro. Sento che nelle persone ci sia il bisogno di tornare anche al testo, al poter interpretare un brano e rivedersi in esso. Non esiste un segreto, l’importante è porsi con verità senza ricercare l’approvazione di tutti. 

Penso la musica sia ciclica e che le persone abbiano il desiderio di tornare al valore.

Salutiamoci, come siamo soliti fare, con una promessa che già sai che non manterrai!

Non guarderò più partite dell’Inter.

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Indie Intervista Pop

La vita è una serie di “Partenze”: dentro l’EP dei Manila

I Manila mi piacciono da quando, qualche tempo fa, arrivò in mail la proposta di “Cuore in gola”, l’ultimo loro singolo prima della pubblicazione – risalente a sole poche settimane fa: non sentitevi in colpa se ancora non li conoscete, ma non rimandate oltre il momento della scoperta! – di “Partenze”, l’EP d’esordio prodotto da Leo Caleo (ricordate “Asteroidi”? Quanto ci era piaciuta, quella canzone…).

Già allora si avvertiva che la musica del quintetto toscano respirasse di una sua dimensione diversa rispetto a ciò che sul mercato pare dominare scene ridotte ormai a stanze virtuali, a contenitori di prodotti troppo spesso simili a lattine da esporre sugli scaffali di un supermercato (low cost) piuttosto che a vere e proprie “opere”: ecco perché, oggi, trovarci a parlare di “Partenze” diventa un buon antidoto alle tossine da “qualunquismo” applicato.

Abbiamo fatto qualche domanda alla band, che ben si è prestata al nostro fuoco incrociato. Buona lettura, e correte a scoprire “Partenze”.

Ciao Manila, abbiamo già avuto modo di conoscere la vostra musica qualche tempo fa, quando abbiamo selezionato il vostro nome tra le uscite calde del nostro bollettino mensile. Oggi, tornate con un EP carico di novità: quanto aspettavate questo momento, e come vi sentite, ora che il vostro disco di debutto è finalmente “fuori”?

Ciao Perindiepoi! Beh, sicuramente è una grandissima soddisfazione! Riuscir finalmente a vedere pubblicato ovunque del materiale a cui lavoravi da tempo appaga e, soprattutto, pensare che chiunque possa ascoltarlo è una bella sensazione! 

Partiamo dall’inizio, seguendo il flusso suggerito dal titolo dell’EP: da dove “parte”, il viaggio di Manila?

Il nostro viaggio parte esattamente da qui, da questo EP che segna la “fine primo tempo” del nostro cammino intrapreso con i nostri primi tre singoli. Ora ci siamo, si parte, siamo pronti a tutto.  

Tre singoli pubblicati nel giro di diversi mesi, a testimonianza di un progetto cresciuto con “lievitazione lenta”, senza fretta di nulla: è stato un processo complesso e frastagliato, oppure le tempistiche della pubblicazione erano state decise già dall’inizio?

Secondo noi, dilazionare le uscite con qualche mese di distacco può creare un po’ di hype senza far “dimenticare” alla gente che esistiamo. Poi, in effetti, quando lavoriamo a un brano, cerchiamo di dargli il massimo della cura e della dedizione e, quando ne scegliamo uno su cui lavorare, va tutto in discesa, la programmazione in genere viene sempre rispettata. 

I vostri brani raccontano, con la semplicità del pop, una condizione di eterna ricerca di un centro di gravità permanente, di un luogo che “inferno non sia”. Credete che ci sia qualcosa di “generazionale”, in tale condizione di “partenti” che “Partenze” sembra raccontare?

No, noi in realtà non vogliamo farne una questione generazionale ma più semplicemente descrivere situazioni che possono far parte della vita delle persone in generale. Ci spieghiamo meglio, nei brani contenuti nell’EP ci sono persone che non riescono a legare sentimentalmente ed emotivamente tra di loro e inevitabilmente, le loro strade si dividono. Le nostre “Partenze” personali riguardano principalmente questa pubblicazione e tutto ciò che le sta intorno, la nostra avventura musicale sia in studio che live. I nostri bagagli sono pronti, si parte, dobbiamo far sentire la nostra musica!

“Segnali” ci colpisce, perché è un brano da mood estivo che arriva però a chiudere l’estate. C’è qualche aneddoto legato ai due brani che chiudono la cinquina dei vostri inediti?

La curiosità più grande riguarda proprio il brano che vi ha colpito di più: “Segnali” nasce inizialmente come brano acustico ed è stato poi riarrangiato col tempo. L’avreste mai detto? “First reaction, shock!”

L’ultima domanda la vorremo dedicare a chi ha lavorato alla produzione dei vostri brani: Leo Caleo è infatti un nome che, da queste parti, è già passato. Ci raccontate come è stato lavorare con lui?

Leo, che sotto veste di produttore si fa chiamare “Merlo Dischi”, è una persona esplosiva e alle volte imprevedibile, ma ha dei colpi di genio che riescono a ordinare e indirizzare verso la forma definitiva di un brano, nel quale riesce sempre a inserire un po’ i gusti musicali di tutti i membri della band. Ha delle ottime intuizioni e lavorare con lui è persino divertente!

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Indie Intervista Pop

Imparare ad andare “Oltre” con le canzoni di Bert

Ah, che gioia imbattersi ogni tanto in un qualcosa che – pur ricordando momenti d’infanzia, canzoni perdute nel giro degli anni e tante altre cose belle che richiamano ad una ben precisa tradizione autorale – non stucchi al primo ascolto, anzi, chiami a gran voce un secondo e poi un terzo e poi un quarto (e via dicendo) ascolto per riuscire ad entrare con efficacia nella complessità di una scrittura che, per una volta, non sembra essere pensata per il noiosissimo giro di danze della playlist di turno.

Sì, perché Bert è uno di quegli autori che, nel tempo, ha saputo dimostrare di avere un gusto e uno stile riconsocibile, certamente suffragato dalla potenza gentile di un timbro cortese ma deciso, dotato di una propria forza emotiva e poetica; lo avevamo già “intuito” in occasione di un bollettino di qualche mese fa, quando lo avevamo coinvolto nella nostra tavola rotonda mensile.

Oggi, all’alba dell’uscita del suo EP “Oltre” per Revubs Dischi, non potevamo certo perdere l’occasione di fare qualche chiacchiera con il ragazzone, che si è ben volentieri esposto al nostro tipico fuoco incrociato.

Bentrovato Bert, siamo ben contenti di poterti ritrovare dopo la pubblicazione del tuo nuovo disco per Revubs Dischi, “Oltre”. Partiamo da qui: “Oltre” in che senso, “oltre” cosa? C’è qualche confine, per Bert, da superare a tutti i costi?

Ciao! Un piacere risentirvi…

“Oltre” in realtà può assumere tanti significati, soprattutto per chi ascolta. Credo sia sempre bello lasciare un proprio spazio anche agli ascoltatori.

Per quello che mi riguarda non si tratta proprio di un confine ma di un mezzo (per me la musica) da usare per superare le proprie possibilità, le proprie paure e difficoltà.

Sembra che nelle tue canzoni ci siano destinatari ben precisi, ai quali pare tu non riesca a parlare così efficacemente come riesci a fare con le canzoni. Ecco, se dovessimo chiederti “perché scrivi?”, cosa risponderesti?

Beh, in realtà sono una persona che dice le cose in modo piuttosto “diretto” ma credo che la musica abbia un suo canale speciale per fare arrivare le cose e anche un diverso modo di poterle raccontare.

Scrivere canzoni è un bisogno primario ed è una sensazione unica di libertà.

Ma te la ricordi la prima canzone che hai scritto? Di cosa parlava?

Certo, si chiama “Sere di Luglio” ed è presente nel mio primo EP “Senza niente”.

Il contenuto è un grande classico forse: un amore non proprio corrisposto.

I cinque brani che compongono “Oltre” raccontano una sensibilità speciale, che pare non aver paura di mettersi a nudo con tutte le fragilità che contraddistinguono l’animo dell’autore. Sei contento del risultato raggiunto? Ci racconti come hai lavorato alla produzione del disco?

Si, sono molto contento. Credo che il disco si ascolti senza stancare, ed era una delle mie preoccupazioni maggiori, visti i contenuti che a volte non son proprio leggerissimi.

Per quanto riguarda la produzione, è stata completamente rivista con Altrove (Revubs Dischi), esistevano già dei pre-arrangiamenti di 4 brani su 5. Per cui ci siamo messi a lavoro, a distanza e in studio e nel giro di un anno siamo riusciti a raggiungere la forma definitiva.

Facciamo un gioco: utilizza i colori per raccontare la cinquina di brani che compongono “Oltre”!

Un film, Verde

Inadatto, Blu

Sembri magica, Rosa

Scusami, Rosso

Come me, Giallo

Ma non saprei nemmeno io il perché!

Ci riveli qualcosa che nessuno sa su Bert? Lo giuriamo, non lo racconteremo a nessuno…

Dopo questa uscita ormai non ho davvero più segreti!!! Però invito i lettori a seguirmi, sicuramente svelerò altri dettagli su di me e su “Oltre” nelle prossime settimane. 

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Intervista Pop

L’alternativa al tormentone si chiama Niveo

Esistono, o meglio, capita di imbattersi talvolta in canzoni diverse, che dicono ben di più di quello che pensano di “poter dire”: insomma, succede che a volte l’ambizione di un brano risulti più moderata, meno arrembante rispetto al potenziale d’azione che quel brano realmente poi possiede.

E’ il caso, ad esempio, di “Occhi” di Niveo, che se te leggi “secondo singolo dell’appena maggiorenne cantautore toscano” ti dici vabbé, sarà la “canzone per l’estate” di un nuovo talento della Generazione Z, e invece ti trovi davanti (o meglio, nelle orecchie) la conferma migliore di un progetto che, già qualche mese fa, sembrava essere partito davvero con la barra dritta: “Sui sedili della metro”, il primo singolo di Niveo, ci aveva già colpiti allora, alimentando aspettative e speranze per il futuro.

Ed eccolo il futuro, che ci gronda addosso a metà luglio e lo fa rinfrescando, senza appesantire l’afa già irrespirabile di quest’estate italiana e “all’italiana”, con i soliti tormentoni (quest’anno, ad onor del vero, meno “molesti” degli scorsi anni…) che rimbalzano da una playa all’altra e le polemicucce su qualsiasi argomento possibile che l’italiano ingaggia al riparo nella sua trincea di battaglia – ovvero, la sdraio sotto l’ombrellone, o il divano davanti al televisore con il ventilatore puntato a raffreddare i neuroni già al collasso.

E allora, quale momento migliore per riprenderci la nostra voglia di ascoltare cose nuove, diverse dal solito melting pot del pop nazionale? Scopritevi Niveo, và, che secondo noi vi fa bene…

Benvenuto Niveo, qualche mese fa sei stato protagonista di uno dei nostri bollettini mensili con “Sui sedili della metro”. Oggi, invece, torni con “Occhi”: se dovessi raccontare questo singolo in poche parole, quali utilizzeresti?

Vi direi sicuramente ‘contrasto’ e ‘allergia’ come se l’amore fosse polline per i nostri occhi.

Raccontaci un po’ di te, per far capire meglio ai nostri lettori chi hanno davanti: chi sei, da dove vieni, quanti anni hai e perché hai deciso, ad un certo punto della tua vita, di fare musica.

Mi chiamo Marco, in arte Niveo, ho 18 anni e vengo da Pistoia, ho sempre avuto il pallino della musica ma per me era come un sogno chiuso a chiave in un cassetto. A 16 anni, in piena quarantena, ho deciso di lavorare scrivendo articoli per permettermi la mia prima chitarra così da imparare a suonarla da autodidatta contemporaneamente a scrivere le mie prime canzoni che tutt’ora mi porto nel mio cassetto musicale. Ora ne ho 18 e spero di non fermarmi mai.

Quali sono gli ascolti che hanno maggiormente segnato la tua visione della musica? 

“Love Is Not dying” è un album di un artista inglese di nome Jeremy Zucker. Questo album ha completamente sconvolto il modo di pensare la musica per me. ‘OK’ di gazzelle è stato un album che mi ha fatto capire al meglio quale fosse lo stile di scrittura adatto per me.

“Occhi” è un brano intenso, che tra l’altro si gioca sul parallelismo interessante e curioso fra l’allergia e l’innamoramento. Ti va di parlarcene?

“Occhi” compara appunto un amore tossico e distruttivo tra due persone in completo contrasto con il polline e gli occhi. Ho sempre pensato di essere allergico all’amore, per questo ci ho scritto una canzone.

Ma proprio come l’allergia al polline e alla polvere, basta solo il giusto antistaminico.

Hai lavorato con Formica Dischi alla pubblicazione dei tuoi due singoli: cosa ti ha convinto, della giovane etichetta toscana? Come sei entrato in contatto con loro?

Ho provato una istantanea intesa con i ragazzi del team di Formica, mi hanno preso a 16 e mi hanno indirizzato al meglio in una strada fin troppo complessa per un ragazzino e l’hanno fatto al meglio delle loro possibilità, ne sarò sempre grato e spero di restituirgli almeno un po’ di quello che mi hanno dato.

E adesso, quali saranno i prossimi passi di Niveo?

continuare a scrivere, a fare musica, a vivere cose che mi faranno provare emozioni da mettere su foglio, su musica. Questo e nient’altro.