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5 brani per il post rottura per Angelika

Esce giovedì 20 maggio 2021 per Supersugo Dischi il singolo di debutto di Angelika dal titolo Cilekka. Un brano che è un nuovo inizio per la cantautrice classe 1998 che vanta una posizione in bilico tra it-pop al femminile e influenze urban, un brano composto di sentimenti distorti e malinconia da ballare, che si impone contro tutti gli abusi emotivi.

Cilekka nasce dalla voglia di ribellarsi ad un silenzio sofferto; è un invito a tutte le persone, uomini o donne che siano, a rifiutare ogni tipo di abuso emotivo. Un racconto tagliente ed ironico contro qualsiasi atteggiamento tossico.

Le abbiamo chiesto i suoi 5 brani preferiti per superare una rottura.

“Ogni storia d’amore è accompagnata da almeno due canzoni; la prima è sicuramente quella che ci auguriamo che resti anche l’unica ovvero la canzone d’amore, quella dell’incontro, quella che parla di voi e del vostro speciale legame. La seconda canzone arriva quando la storia va in fumo ( l’augurio per tutti voi è che questa canzone non arrivi mai). Di seguito 5 canzoni che ,a mio parere, sono ideali per superare una rottura e che vi faranno ritrovare la carica giusta.”

Cry Me a River – Justin Timberlake O Micheal Bublé?

“Cosa hanno in comune Justin Timberlake e Micheal Bublè? Il primo, Justin Timberlake, nel 2002 ha lanciato nel mercato musicale una vera e propria bomba, “Cry me a River”di cui recentemente anche Jorja Smith ha fatto una meravigliosa cover acustica per la BBC Radio 1 . Justin nel brano invita la sua ex partner a piangere per lui un fiume di lacrime dopo averlo lasciato.

Micheal Bublè invece nel 2009 ha inciso una cover contenuta nell’album “Crazy Love” di un brano datato 1953 di Arthur Hamilton ( reso celebre dalla bellissima interpretazione di Ella Fitzgerald) intitolato appunto “ Cry Me a River”. Due titoli uguali per due situazioni analoghe; in sintesi un invito a pensare all’errore commesso nel perderli.”

These Boots Are Made for Walkin’ . Nancy Sinatra

“One of these days these boots are gonna walk all over you” canta Nancy Sinatra dichiarando apertamente che sarà capace di andare avanti con una certa fierezza. Se siete giù, stivaletti ai piedi e Nancy Sinatra ad alto volume.

Sorry – Madonna

Madonna canta “non voglio sentire, non voglio sapere! Ti prego di non dirmi che sei spiacente”. Un brano per tutte/i coloro che hanno l’ex al portone che chiede perdono; l’amore è cieco ma non sordo, le bugie sono, nel loro silenzio, assordanti.

I’m Good – Blaque

Un brano del 2003 del gruppo, tutto al femminile, chiamato Blaque! Non le conoscete? Potete recuperare guardando il film Honey con una giovanissima Jessica Alba come protagonista. Le Blaque cantano “ I don’t really mean a thing cause, I’m good With or without you”;un brano che vi darà una bella carica!

Womanizer (Donnaiolo) – Britney Spears

It’s Britney Bitch! Womanaizer è un iconico brano di Britney Spears uscito nel 208 accompagnato da un altrettanto iconico video-clip in cui un “povero” donnaiolo viene aggredito da una moltitudine di donne. Un brano da cantare in macchina a squarciagola, che vi farà allentare parecchia tensione.

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Elettronica Indie Internazionale Pop

Il lockdown secondo Hesanobody

Esce venerdì 30 aprile 2021 il nuovo singolo di Hesanobody per Street Mission Records (etichetta londinese distribuita da [PIAS]). Si tratta del primo nuovo estrato dal nuovo e conclusivo capitolo della trilogia di EP iniziata con The Need To Belong e The Night We Stole The Moonshine, in uscita quest’estate. Il progetto solista di Gaetano Chirico torna con il suo inconfondibile cantautorato electro-pop di respiro internazionale. The Necessary Beauty è un risveglio dopo una serie di sogni e incubi, un ritorno alla realtà che ritrova il protagonista a fare il punto della sua vita, confrontandosi con domande retoriche, inutili, che rischiano di ingigantirsi intralciando il suo cammino, una preghiera fragile per ritrovare una via che rendiamo inconsciamente impervia, auto-sabotandoci.

Gli abbiamo chiesto come ha passato il lockdown!

Come stai passando questo strano periodo, qual è la tua routine?

Sto passando questo periodo sforzandomi di renderlo il più normale possibile. La mia routine non è cambiata tantissimo, “semplicemente” molte cose che prima facevo di persona, adesso son costretto a farle da casa davanti ad un computer e qualsiasi serata con altre persone, che sia fuori o a casa, deve terminare entro un certo orario. È di sicuro alienante, anche per una persona che ama molto stare a casa come me. Più che altro a seconda del momento mi capita di vivere male e con fastidio l’impossibilità di scegliere, di avere alternative.

L’arrivo della pandemia ti ha sconvolto qualche piano? Quale? 

Li ha di certo rallentati parecchio. Già l’anno scorso ero pronto a pubblicare un singolo in primavera, ma le chiusure, le limitazioni e l’incertezza hanno bloccato qualsiasi cosa, facendomi ripensare a tutto il mio nuovo lavoro. Mi auguro in meglio!

Te la ricordi la primissima quarantena? Come la passasti?

Chiuso in casa, per fortuna non da solo come molta gente. Con la mia ragazza ci siamo accodati alle innumerevoli persone che hanno deciso di darsi alla panificazione, ma solo dopo aver lottato per settimane alla folle ricerca del lievito.

Di cosa parla il tuo ultimo singolo? L’hai scritto nell’ultimo anno?

‘The Necessary Beauty’ è sostanzialmente una preghiera. Un’esortazione a non lasciarsi sopraffare dalle aspettative che noi stessi e gli altri riponiamo sul nostro percorso di vita, a non auto-sabotarci cercando risposte alle domande sbagliate. Ho iniziato a scriverlo nel maggio del 2019, dopo di che l’ho lasciato sedimentare fino all’estate scorsa, quando sono riuscito a trovare la veste definitiva grazie all’aiuto di Federico Ferrandina, il produttore della traccia.

Cosa ti manca più di qualsiasi cosa?

Non aver paura di abbracciare familiari e amici, ma son fiducioso si tratti solo di pazientare ancora per poco.

Ti ricordi ancora l’ultima serata che hai fatto post 22.00?

Quest’estate nella mia città natale Reggio Calabria. Ho passato diverse di serate pseudo-normali e senza limitazioni dettate da coprifuoco. Non vedo l’ora si possa tornare a farlo.

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Indie Internazionale Pop Post-Punk

Bibopolare, massaggio cardiaco per un cuore al collasso

Mica facile tornare alla vita, ricordarsi come scrivere di musica dopo così tanto tempo che non lo fai. Le bollette da pagare, gli affitti da sbarcare, il dentista da saldare e una liquidità alienante che ci sta condannando – in modo sempre più disperato e tragicamente “resiliente” – ad assumere le forme di contenitori che non si lasciano individuare ma che, ciononostante, danno una direzione sempre cangiante al nostro existere et cogitare, insomma, la frenesia di una quotidianità sempre più isterica mi ha tenuto, negli ultimi mesi, lontanissimo da quello che più amo fare: scoprire cose nuove, ascoltare musica che emozioni, dare un senso a tutto questo grigiore che attanaglia l’entusiasmo ed uccide la fantasia.

Ci voleva in effetti un disco come quello di Bibopolare – eccentrico cantastatorie (o meglio, auto-terapeuta lucano: ascoltate il suo ultimo lavoro, e capirete cosa intendo) originario di Potenza ma con base a Bologna – per farmi riprendere in mano il filo del discorso, restituendo un po’ di speme a questo corpo lasso e stanco di immondizie musicali (cit.) e di direttori artistici che sarebbero dovuti andare in pensione già quarant’anni fa (ai tempi, insomma, del celebre disco “Patriots” del grande Franco Battiato) e che invece, travestiti da novelli hipster e produttori rigenerati (Frank Zappa docet), continuano a vendere la rivoluzione a colpi di mercato.

Perché si sa, la moda di essere ribelli non smetterà mai di far arricchire editori e discografici sempre ben attenti ai bisogni dei più giovani, che altro non sono che «splendide invenzioni – come direbbe Alessandro Carrera – del XXI secolo» e – da almeno sessant’anni, quando cioè il boom economico ha scoperto il “tempo libero” – pacchetti azionari deambulanti per l’industria dell’intrattenimento.

Bibo, invece, dal bagno di casa sua (sì, quello che sentite nel disco è lo splendido riverbero naturale che si può apprezzare solo nel gabinetto della propria abitazione) ha registrato un disco diverso, che parla di tutte quelle cose che ho elencato sopra e che negli ultimi mesi mi hanno succhiato via a forza la voglia di ascoltare, di scrivere e di crederci: dall’ascolto denso e (volutamente) faticoso di “Com a na crap” – letteralmente, “come una capra” – emergono richiami alle radici e slanci verso un recupero del passato tanto retrò da sembrare futuristico, tanto originario da diventare originale.

E in effetti, “Com a na crap” è un disco che non possono capire tutti, che in playlist non finirà mai perché invece che consolare l’ascoltatore lo prende a pugni, con la crudezza di una poesia amara avvalorata dal filtro sempre malinconico e nostalgico della scelta dialettale, ben lontana qui dal populismo dello stornello o della tarantella (anche se, ben s’intende, nulla vi sarebbe stato di male in caso contrario) ma piuttosto vicino al cinismo onirico di un Trilussa (anche se qui il dialetto usato non è quello romano, ovviamente, ma il lucano).

Bibo racconta di dolori che appartengono alla mia, alla nostra generazione, irrisolti cronici a cavallo tra un passato da inadatti alla responsabilità e un futuro che ci obbliga al protagonismo, senza concedere margini di errore ad un popolo di eterni adolescenti immobilizzati dalla costante svalutazione della propria virtù, dalla disistima inflazionata da una crisi prima valoriale e poi economica, da una licenza di sopravvivenza che ci ha disimparato a vivere davvero.

Insomma, in “Com a na crap” Bibopolare racconta tutti i motivi che mi hanno spinto, come dicevo, a desistere dall’ascoltare musica nuova, dal cercare «nell’inferno ciò che inferno non è» e dal credere che possa servire a qualcosa; allo stesso tempo, nello stesso disco, si annidano tutti i motivi necessari a non smettere di resistere, a non cessare di lottare.

Sapere di non essere soli, in questa disperata trincea, fa bene al cuore rimettendolo al proprio posto, dov’è sempre stato. Qui, trovate qualche domanda fatta all’artista, che ha risposto con la sua proverbiale e serafica semplicità. Su tutte le piattaforme d’ascolto digitale, invece, trovate “Com a na crap”, il disco d’esordio di Bibopolare.

Fatevi del bene: sudatevelo; ne vale la pena.

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Internazionale

Abbiamo intervistato Papa Fral

Arriva l’estate e con essa anche i singoli più adatti alla stagione. Non fa eccezione Papa Fral, rude boy capitolino che propone una dancehall decisamente interessante e dal flow unico. “Downtown” è il suo nuovo singolo, recentemente pubblicato per Mitraglia Rec e con il quale l’artista romano non lascia dubbi sulla qualità della sua proposta. Ne abbiamo parlato con lui.

Ciao Papa Fral e grazie per il tuo tempo! Prima di tutto raccontaci com’è fare dancehall in Italia.

Grazie a voi, è un piacere per me!
Fare Dancehall in Italia a volte è tremendo, come per molti altri generi. La fatica principale è quella di riuscire a superare i dogmi dei puristi del genere che spesso storcono il naso quando il loro genere preferito viene mescolato ad altro, cosa che faccio puntualmente.
Ci sono anche numerosi lati positivi, perché essendo un genere poco esplorato nel nostro paese, almeno negli ultimi anni, rimane impresso nella mente della gente che lo sente per la prima volta, vedo questo soprattutto durante i live. È sicuramente una strada in salita, ma si balla, quindi va bene così!

Da persona e da artista, cosa ti lega a questo genere e, più in generale, alla Jamaica?

Sono le emozioni che mi legano a questo genere e quindi alla Jamaica, come ad altri posti.
Adoro quell’isola perché è riuscita a ispirare più di metà della musica mondiale, me compreso.
Dopo essere stato lì ho capito anche l’approccio autentico che la Jamaica ha con la musica e me ne sono definitivamente innamorato.

Passiamo a Downtown, il tuo nuovo singolo. Flow, testo e base pazzeschi per una traccia che potrebbe diventare davvero una hit! Da quale di questi tre elementi sei partito per farla nascere? 

Se dovessi metterli in ordine direi flow, base e testo. Avevo un flow in mente, in maniera molto vaga; quando king The Eve ha composto il riddim il testo è uscito da solo.

Pensi che il 2021 sia l’anno buono per la dancehall in Italia? O reputi si debba ancora fare parecchia strada prima che il genere diventi più main?

La musica in generale dovrà faticare anche quest’anno ovviamente e si dovrà aspettare. Se dobbiamo andare ad una dancehall per stare seduti non ha senso, questo è chiaro!


Con quale artista italiano ti piacerebbe collaborare? Senza distinzione di generi. 

Dipende, adoro fondere il mio stile con altri generi, quindi potenzialmente con quasi tutti gli artisti validi.
Mi piacerebbe sicuramente collaborare con Clementino, i Sud Sound System, Vacca ed altri. Sicuramente una combo con Brusco è uno dei miei sogni nel cassetto da sempre, ma su questo non vi dirò assolutamente nulla per ora…

Per concludere: dove possiamo seguirti per non perderci i tuoi prossimi passi?

Sicuramente sui social, Instagram, Spotify, YouTube…
Ma principalmente dovete venire ai live perché voglio vedervi tutti sotto al palco.
Rimanete in ascolto perché sta per esplodere una bomba!

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Elettronica Internazionale Pop

Le 5 cose preferite dei Low Polygon

Con un nome che fa riferimento diretto alla grafica tridimensionale – in particolare ai poligoni – i Low Polygon si pongono l’obiettivo di tradurre in musica quello che sentiresti nel tenere in mano un cubo. Da un lato dinamiche nette e affilate. Dall’altro lato, loop sia nella musica che nei testi. Una tridimensionalità che viene trasportata live con strumenti acustici ed elettronici. Low Polygon è un progetto che nasce nel 2018 a Dalmine in provincia di Bergamo. Inizialmente concepito come un progetto di musica elettronica prende nel tempo la forma di un ibrido acustico/elettronico per poter essere portato sui palchi.

Dietro Low Polygon ci sono Giorgio, Davide, Marco e Omar; un team a metà tra la musica e l’arte grafica con una concezione stilistica, sonora e artistica improntata sul concetto “low poly”.

Ecco quali sono le loro cinque cose preferite.

BABASUCCO
Eravamo all’Off Topic di Torino e Omar aveva queste bustine di “babasucco” che gli avevano dato giorni prima come energizzante con caffeina e/o ingredienti con effetti simili. L’utilizzo era semplice: busta, acqua, mescola. Sta di fatto che abbiamo deciso di testarla su Marco senza dirgli niente per vedere se effettivamente funzionasse, per essere sicuri abbiamo usato qualche busta in più. C’è da dire che Marco non è mai stato un gran fruitore di caffeina e la botta di energia si è manifestata in modo piuttosto massiccio: pochi minuti dopo averlo bevuto non riusciva a smettere di muoversi, è stato un razzo a smontare tutte le cose sul palco ed è uscito dal retro del locale facendo avanti e indietro più volte sulla via, l’effetto è durato in modo considerevole contando che nella pausa autogrill tra Torino e Bergamo è sceso dalla macchina per fare svariati giri di corsa attorno all’autogrill alle 2 di notte.

POLIZIA
Chi ci conosce sa che abbiamo sempre avuto difficoltà a descrivere il nostro genere musicale, c’è dell’elettronica ma con molti riferimenti suonati, delay piuttosto ricercati ma anche fuzz ignoranti e quando i poliziotti in un controllo di routine fuori dall’autostrada ci hanno chiesto “ah si, eravate a suonare? e che genere fate?” siamo caduti in un silenzio di riflessione che è risultato estremamente sospetto. Marco cercando di riempire il vuoto esordisce con “prima cantavamo in inglese ora cantiamo in italiano” la risposta dell’agente è stata “avete fatto bene, potete andare”; è da quel momento che abbiamo deciso definitivamente di cantare in italiano.

IL LICEO ARTISTICO PIERO PELÙ
La prima volta che siamo andati a suonare a Firenze è nata una legge non scritta interna al gruppo per cui Giorgio non può guidare.
Non c’è un vero motivo anche perchè io (Giorgio) ho sempre guidato, ma da allora nelle trasferte più lunghe sto seduto dietro e mi faccio portare, top. Mentre mi godevo il viaggio dai sedili posteriori ho convinto tutti che a Firenze ci fosse un liceo artistico dedicato a Piero Pelù. Ci piace ricordare quel momento.

IL GIOCO DI OMAR
Esiste un gioco alcolico che dopo averlo giocato nessuno ricorda più le regole e vanno riscritte, è il gioco di Omar.
Omar è l’unico che se lo ricorda: tra i nostri amici esistono molte varianti di questo gioco perché ogni volta viene ricreato, anche se onestamente ora non me le ricordo.

LA PASTA PRE CONCERTO
Alcuni la mangiano prima, altri la mangiano dopo, altri come Cesti scompaiono fino all’inizio del concerto perchè si ritira a meditare nell’angolo più isolato del locale. Insomma la abbiamo provata di tutti i tipi: calda, fredda, buona, e soprattutto dimmerda.
Nonostante l’imprevisto che il cibo svolge nel periodo tra il soundcheck e il live, questa pasta di Schrödinger è il momento che aspetti prima di salire sul palco. Contiamo di tornare presto a mangiarla e di conseguenza a suonare.

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Indie Internazionale Pop

Le 6 giornate storte di Adelasia

Esce venerdì 28 maggio 2021 per Sbaglio Dischi (distr. The Orchard) il nuovo singolo di Adelasia dal titolo Giornata Storta. Un nuovo capitolo che segue l’uscita del suo album di debutto 2021 pubblicato alla fine dell’anno scorso.   Giornata storta è un brano che si impone come un singolo estivo per chi, un po’ come tutti, vive continuamente giornate storte, psicodrammi e amori non corrisposti, e riesce comunque a riderne e a lasciar correre. Ironia e malinconia convivono qui con sussurri, riverberi e atmosfere subacquee. 
 
“Giornata storta è un piccolo atto d’amore verso se stessi, è guardare le cose che ti accadono con distacco e riuscire a vederle per quello che sono, delle piccole gocce in un mare di eventi. La mia è stata solo una giornata storta: lui scappava da me e quindi il sole alla fine l’ho inseguito io e inseguendolo in macchina è nata questa canzone. Ogni evento che mi accade, se lo uso come pretesto per scrivere una canzone, assume un colore più bello. A questo brano sono particolarmente affezionata: c’e stato un lungo periodo quest’anno in cui non riuscivo a scrivere, non ero ispirata e questo mi frustrava molto poi fortunatamente quel giorno in macchina ho iniziato a canticchiare melodie ed è nato questo brano che consiglio di ascoltare proprio in macchina, finestrini spalancati e vento in faccia.”

Gli abbiamo chiesto di elencarci le sue 5 giornate storte.

Al ristorante mi succede spesso di ordinare qualcosa ma di ricevere un altro piatto o di non ricevere proprio nessun piatto.

Mi piace andare in bici ma spesso mi esce la catena e arrivo nei posti sporca di grasso ovunque.

Prendersi il diluvio in motorino

Quando lavoravo nei ristoranti mi è successo più volte di mettere il detersivo per i piatti nella lavastoviglie e di inondare la pedana di schiuma.

Al casello entri nella corsia telepass ma il telepass non ti funziona


Andarsi a tagliare i capelli e portare come reference una foto di bella hadid ma uscire dal parrucchiere con i capelli dei Cugini di campagna.


 

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Chi (e cosa) è IL COSA, lo iato dell’elettronica lo-fi italiana

Buon ritorno per IL COSA, che in “Iato” mette alla prova l’assopita capacità d’ascolto del pubblico italiano con un disco coraggioso, che non vuole ammiccare ad altro che non sia l’urgente ricerca di libertà creativa del suo autore.

IL COSA è il nome d’arte di Ilario Promutico, bassista e musicista elettronico ciociaro di stanza a Bologna. Passa gli anni dell’adolescenza coltivando l’interesse per l’arte e la cultura underground – in tutte le sue varie sfaccettature: fumetto, post-punk, grindcore, writing, hacking; dopo essere stato attivo in molteplici progetti musicali di stampo post-rock, dal 2011 intraprende una ricerca personale estetica imperniata sulla sperimentazione (di stampo eminentemente elettronico) di nuove sonorità e nuove pratiche creative: campionatori e sintetizzatori diventano pian piano padroni della sua scrittura, rimanendo particolarmente legato al dub industriale e alla bass music britannica. Un coacervo di influenze che, in effetti, emergono con prepotenza anche in “Iato”, “fumetto” musicale che certamente sarebbe piaciuto al mitico Prof. Bad Trip (nome d’arte del compianto Gianluca Lerici, grande fumettista ligure) e che di certo fa compiacere gli amanti di un certo tipo di “cultura alternativa” che oggi rischia di rimanere schiacciata sotto il peso della trasformazione radicale subita dal concetto di “indipendenza” negli ultimi dieci anni.

IL COSA è, infatti, più indie di tanti che oggi potreste trovare all’apice delle playlist editoriali dedicate al genere, reclamando per sé stesso la libertà di fare quello che gli pare. Sei tracce filtrate attraverso modificazioni diverse, contaminate da influenze che vanno dalla trap al lirismo lisergico della prima scena indipendente italiana; “Razza di idiota” restituisce un testo infuocato alle strumentali “Black Box” e “Nullipotent”, senza per questo preservarsi dalla livellazione distorcente di “Che non può essere salvato” e contribuendo a dare all’ascoltatore la sensazione di trovarsi al centro di un vortice risucchiante.

Un buon ritorno, che conferma l’attitudine alla sperimentazione di un artista eclettico, da scoprire. 

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Il lockdown secondo i Maldimarte

Dalle costole dei Vinylika, prende il via la seconda vita artistica di Vincenzo Genuardi e Domenico Mistretta, rei di una collaborazione ultradecennale. In una decade di rock’n roll e chitarre distorte, l’armonia sempre in primo piano aveva dato vita ad un trascinante power pop, con testi in italiano e melodie ammiccanti atte a conquistare al primo ascolto. Un approccio compositivo che ora, con una rinnovata ispirazione e la maturità acquisita sul campo tra palchi e home studio, sterza verso una nuova veste più moderno/cantautorale. L’urgenza espressiva in chiave rock si è trasformata in pacata osservazione degli eventi che accadono intorno, in una narrazione che prende spunto più dalla realtà esterna che dall’introspezione. In “Maldimarte” le chitarre fanno un passo indietro rispetto ai synth e i brani diventano un osservatorio passivo su un futuro cronico e individualista. Rallentare diventa la nuova urgenza, per riprendere il contatto con gli elementi fondamentali della vita e la percezione di un mondo che non è e non sarà più lo stesso.

Abbiamo chiesto loro di raccontarci il loro lockdown.

L’arrivo della pandemia vi ha sconvolto qualche piano? Quale?
Ha sconvolto tutto, sul piano personale e lavorativo, ma l’assenza dall’occupazione principale ci ha dato più tempo per dedicarci alla musica, tempo che aspettavamo da anni, quindi ne abbiamo approfittato per comporre nuova musica e fare uscire il nostro primo Ep.

Come state passando questo strano periodo, qual è la vostra routine?
Purtroppo nel persistere delle restrizioni non è cambiato molto, continuiamo a promuovere ”Vicini di Caos”. Probabilmente ricorderemo e ringrazieremo a vita questa pubblicazione perché in un momento cosi assurdo è stato per noi motivo di crescita e sviluppo sul piano artistico, ci ha tenuti occupati con la promozione, e quindi ha riempito intensamente le giornate. Nel frattempo si lavora a nuovi singoli.

Ve la ricordate la primissima quarantena? Come la passaste?
Periodo epico difficile da dimenticare, reclusi come tutti da un giorno all’altro, tra cucina, studio, videochiamate, qualche suonato live in dirette organizzate… un paio di volte abbiamo trasgredito il DPCM per scambiarci pedali, chitarre etc., in perfetto stile proibizionismo.

Di cosa parla il vostro ultimo singolo? L’avete scritto nell’ultimo anno?
Respirerò” è una finestra che si affaccia sul mondo, una disamina contemporanea su un mondo flesso a logiche assurde non conservative. L’idea è che si possa posticipare qualsiasi comportamento scorretto ai posteri, consegnando loro un vero inferno. La terra ha a disposizione miglia di anni per metabolizzare il nostro funesto passaggio e tornerà a respirare prima o poi. Questo ci consola.

É stato scritto nel 2018 e inciso alla fine del 2019. Spesso, durante le nostre conversazioni, veniva fuori questa frase: “C’è troppa felicità immotivata e troppa stasi, sta per succedere qualcosa”. Detto fatto. Non so perché ma ce lo aspettavamo, il singolo, ne è prova documentale; molti invocano una normalità come se fosse l’eden, sappiamo benissimo che non è così.

Cosa vi manca più di qualsiasi cosa?
Le chitarre sul palco, la botta della cassa e il basso che scuote, i post concerto, i lunghi viaggi per andare a suonare, l’arrangiarsi per fare musica e goderne.

Vi ricordate ancora l’ultima serata che avete fatto post 22.00?
A dire il vero facciamo un pò fatica a ricordarlo, forse è passato troppo tempo.

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SDENG: Il suono delle scelte sbagliate e del nuovo capitolo delle Altre di B

Altre di B, la band indie – rock made in Bolo, sono Giacomo, Andrea, Giovanni e Alberto e sono tornati il 14 maggio su tutte le piattaforme digitali con un nuovo progetto, un album concettualmente legato ad una fase nuova della loro storia personale: SDENG.

La campagna è la meta prediletta per il loro quarto trasloco, a cui corrisponde come da tradizione un album, il quarto, che ci regala dieci tracce, anticipate dall’uscita di coppie di singoli, a loro volta associate a coppie di artwork sui muri della loro città, realizzati dallo street artist Mannaggia. La scrittura non ruota più intorno ad un tema unico, come nei precedenti progetti Sport e Miranda!, ma il risultato è comunque organico e coerente, ma mai privo della spontaneità tipica del loro sound, che li ha portati alla conquista di importanti palchi internazionali (Primavera Sound, SXSW, Sziget, Europavox).

In questo quarto capitolo ci sono ritmi più rilassati, in una miscela ben riuscita stili post-punk e jangle pop. Stavolta il loro suono è quello delle scelte sbagliate, degli “scontri della vita”, nella quotidianità come nei rapporti interpersonali, indagati perfettamente in brani come Mommy e Green Tea Tiramisù, personalissimo pezzo dedicato all’ex tastierista della band.

Abbiamo chiacchierato un po’ con loro ed ecco cosa ci hanno raccontato!

Ciao ragazzi! SDENG è il vostro quarto album, ma immagino che ogni volta sia un po’ la prima volta. Come state?

Ciao Futura 1993! Noi stiamo bene, anche se come tutti veniamo da un anno e mezzo gravoso, nel quale abbiamo dovuto rimandare l’uscita di un disco pronto da tempo, vederci attraverso la webcam del computer e rinunciare all’attività dal vivo. Ciononostante è stata una gestazione divertente e una produzione d’altri tempi, una nuova prima volta, come fosse il primo disco. SDENG è un album registrato come negli anni Sessanta, in presa diretta e con post-produzione analogica e nessun artificio: un orecchio attento noterà stonature, difetti, spigoli e qualche errore. È a tutti gli effetti un manufatto.

SDENG è stato realizzato in un granaio e in questo periodo storico si parla spesso di un ritorno generale alla vita semplice, rurale – una sorta di deurbanizzazione. Perché avete scelto la campagna e cos’ha rappresentato per voi e per questo progetto?

Andrea ha in affitto un granaio, utilizzato come deposito di chincaglieria, sacchi di grano, mobili in disuso e vecchia attrezzatura agricola. Così dopo esser stati sfrattati dal garage che utilizzavamo per le prove abbiamo deciso di ottenere il massimo rendimento da un granaio, che non è propriamente un luogo adatto alla musica, ma riadattandolo un poco è diventato un ambiente straordinario. Dopotutto sei circondato dal silenzio, dai cani, gatti, pavoni e volpi. Quando hai tanto spazio attorno le cose diventano più semplici: è né più né meno il concetto del foglio bianco da scarabocchiare. Non ci siamo imposti limiti di tempo, limiti di scrittura e dettami discografici. Per noi è un lavoro schietto e diretto.

SDENG è un rumore che avete rappresentato graficamente con un pallone che non entra in canestro, ma risuona sul ferro. A me, d’impatto, ha ricordato un colpo forte, preso di testa, di quelli che ti stendono. Come mai questo titolo?

È il suono secco e immediato di tutti gli scontri della vita: è un incidente, è un battibecco, è un canestro sbagliato da un metro di distanza, è l’ingiustizia e la prevaricazione. Ma è anche il rumore della rivalsa e dello sfogo, dell’innamoramento, della capacità di dire no e della riconquista dei propri spazi. È stata una scelta molto semplice: passeggiando per Bologna abbiamo visto quel disegno su un muro (è dello street artist e sassofonista Mannaggia, che abbiamo successivamente contattato per il resto delle grafiche) ed è stato un rumoroso colpo di fulmine. Era il tassello mancante allo spirito con cui abbiamo affrontato questo lavoro.

L’unica featuring del disco è con i regaz dello Stato Sociale, nello specifico Checco e in un brano in italiano. Parlatecene.

SDENG ha visto la partecipazione di diversi musicisti che ci piacciono (Luca Lovisetto di Baseball Gregg, Ilaria Ciampolini di Pop-X e Immanuel Casto, Dario Nipoti e Lorenzo Musca dei Blaus). Avevamo questo brano samba che volevamo assolutamente cantare in portoghese e avevamo pensato alla voce di Asia Morabito (Sleap-e), ma con lo scoppio del lockdown abbiamo dovuto rimandare i lavori. La scorsa estate, dato che Giacomo stava lavorando al disco di Checco (quello che è andato a comporre l’ultimo lavoro de Lo Stato Sociale) abbiamo pensato che per praticità potevamo avvalerci della sua voce ed di accantonare il portoghese, del quale avevamo sottovalutato la musicalità. Siamo comunque in debito con Asia e ci rifaremo.

L’arte e il linguaggio dei muri. Qual è il vostro legame con l’arte figurativa, che vi ha portato a voler rappresentare le dieci tracce del disco sui muri della vostra città?

I muri di Bologna sono da sempre un pot-pourri di creatività autentica e, al di là di quello che uno pensi in materia di arte di strada e vandalismo, è un tipo di espressività estremamente relazionato col tempo in cui si vive. E i disegni sono materia viva, non pelle morta. A Bologna si parla di droga, anticlericalismo militante, assassins de la police, musica, espressioni lapalissiane ed emancipazione. Tutto però ha inizio anni fa a San Francisco, dove vediamo l’immagine di una nuvola gigante con al centro le parole It’s a cloudy day in San Francisco. Lampante, potente, bello. È il primo di tanti SDENG. Di arte di strada ne parlato anche qua.

Quanto ha inciso su di voi, come artisti e come ascoltatori di musica, e su quest’album l’assenza dell’assembramento sotto palco?

In tutta onestà non ha spostato granché. Certo, è cambiata l’interazione palco-pubblico, ma è una lunga stagione delle vite di tutti destinata a cambiare e tornare ai vecchi canoni. E, detta francamente, i concerti con le sedie ci sono sempre stati. Ahimè.

Il vostro concerto dal balcone in Bolognina quest’anno ha avuto un sapore diverso, quello del tempo storico che stiamo vivendo. Come musicisti, avete avuto modo di entrare in contatto con realtà musicali fuori dall’Italia: secondo voi esiste nel nostro Paese un problema, istituzionale e non, con il settore artistico?

Il 6 gennaio eravamo a un passo dall’eseguire il solito concerto della Befana, che suoniamo dal balcone di casa di Giacomo dal 2011: ma, viste le circostanze, ci sembrava una mancanza di rispetto. Abbiamo deciso di fare la cosa più sensata, ovvero di salire sul balcone con gli strumenti e di non suonare. Questa lunga stasi è stata (è da lungo tempo) la condizione dell’arte per oltre un anno, arte che è stata messa alla porta dalle istituzioni, quasi criminalizzata, depennata dalle agende governative, dimenticata e ridicolizzata. Tutto questo mentre il resto della macchina blaterava di riaperture a fronte di migliaia di contagi giornalieri e dei morti nelle terapie intensive. Il problema esiste ed è legato al fatto che, sia chiaro generalizzando, questo non è considerato un lavoro a meno che non si riempiano gli stadi, o non si vada in televisione. Esistono lavori di serie A e lavori di serie B, questo è il problema.

 Il posto più bello dove vi ha portato la vostra musica e il palco sui cui ancora non siete salite, ma che sognate di calpestare?

La prima volta in America (Shrine di New York City) è il posto più bello dove ci ha portati la musica. Il mio sogno (Giacomo) è il tendone BBC del festival di Glastonbury.

Di Elisabetta Picariello

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Internazionale Pop

Il tema natale di Gionta

È stato pubblicato lo scorso 26 marzo Eyes of a desperate soul, il nuovo album di Antonio Francesco Daga, in arte Gionta. Si tratta di un disco vario, ricco di influenze musicali, dal reggae alla dub, dall’elettronica al cantautorato, con elementi che vanno dal pop al tribale. Talvolta pare di essere sospesi, senza il sostengo della struttura canonica della forma canzone. I testi sono un’analisi intima e personale di sé, del passato, della vita, passando in rassegna le emozioni del giovane cantautore in un viaggio talvolta ermetico, talvolta cristallino nella sua interiorità. Una commistione innovativa in cui la parola sperimentare è il fil rouge che tiene unito l’impianto compositivo, abbinato all’energia e all’esplosività di ritmi incalzanti e il costante gioco di contrasti.

Gli abbiamo calcolato il suo tema natale.

Sole in Capricorno
Il tuo carattere un po’ ombroso e taciturno e il tuo ‘self control’ spesso eccessivo arrivano ad imbarazzare gli altri, che ti vedono anche un po’ ‘snob’. Di certo ami leggere molto, spesso ti rinchiudi in te stesso e lo studio delle materie scientifiche è spesso uno dei tuoi punti forti. Vero o falso?

Vero. Verissimo! Spesso mi capita di isolarmi e non essere compreso in questo comportamento… Ci ho fatto l’abitudine ormai. Amo leggere ed amo approfondire gli argomenti scientifici, storici, mitologici e tanto altro.

Ascendente in Scorpione
Solo quando costruisci una famiglia ritorni ai valori tradizionali della coppia e, non di rado, prima di raggiungere una perfetta armonia, combatti col partner per stabilire chi dei due avrà la supremazia. Vero o falso?

Falso. Ma solo perché ho smesso da tempo di volere la supremazia (e anche perché attualmente non ho una partner) a tutti i costi. Ho frequentato alcune persone di questo segno e alcuni aspetti sono veritieri e li posso confermare… Ma non posso andare sulla risposta “vero”.

Luna in Vergine
Per l’uomo spesso indica un sottile malessere di fronte alla seduzione, e difatti in questi casi è presente una tipica timidezza. Vero o falso?

Vero. Ho sempre avuto un certo “timore reverenziale” rispetto all’altro sesso. Sono stato cresciuto da mia madre e mia nonna ed ho un grandissimo rispetto per le donne. Sono molto, molto timido (tranne quando canto :D). Aneddoto: il mio primo bacio (non bacio) fu dato sul lato delle labbra perché avevo paura di mancare di rispetto alla persona alla quale andavo ad approcciarmi (che è poi diventata la mia partner di allora). Impacciatissimo, la salutai in questo modo…

Venere in Sagittario
La realizzazione affettiva si raggiunge più con uno scambio intellettuale che non nel rapporto fisico. Vero o falso?

Vero. Sono una persona romantica e, spesso, basta solo l’affinità mentale a farmi innamorare follemente di una persona. Certo che, ovviamente, il rapporto fisico ha la sua incidenza, ma non è fondamentale per la realizzazione affettiva (o comunque non è la prima cosa che cerco!). Aneddoto: avevo molta più voglia di portarmi a letto una ragazza che mi piaceva tantissimo mentre ci parlavo, rispetto a quando nel letto ci siamo effettivamente finiti. Non è stato un caso isolato ahimè.

Marte in Vergine
È indubbiamente una posizione molto felice per ciò che riguarda la conquista delle mete lavorative, ottenute grazie alla tenacia, al metodo ed al rigore sistematico dell’autodisciplina. Vero o falso?

Generalmente risponderei VERO… Ultimamente, la situazione che stiamo vivendo mi fa vivere dei momenti in cui mi chiedo che cosa io ne stia facendo dell mia vita, però la tenacia non manca e mi fa rinsavire da questi brutti pensieri. Ho pubblicato il mio ultimo album “Eyes of a desperate soul” proprio durante la pandemia da Covid19 ed ho dimostrato a me stesso e a chi segue la mia musica di avere coraggio e soprattutto rispetto per ciò che ho sempre fatto con rigore e dedizione da quando ero ragazzino. Ho avuto tante belle soddisfazioni dalla mia carriera musicale e sono certo ne avrò tante altre. Grazie per questo spazio che mi avete gentilmente offerto!