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Dada Sutra è la cosa più assurda che ascolterete oggi, ma anche domani

E sto passando questo periodo assurdo dove non mi piace niente, dove mangio svogliatamente, mi annoia tutto, ho riprovato a leggere Misery che aveva riempito la mia vita qualche estate fa, ma alla fine sono sopravvissuto giusto qualche pagina, per poi morire definitivamente davanti all’ennesimo programma su Real Time. Ho aspettato questo momento di vuoto per davvero tanto tempo, volevo riposarmi, leggere tutti i libri che avevo comprato durante l’anno, vedere tutti i film che avevo salvato su Netflix e invece niente, sono qui a morire. E, con quello che è stato forse l’ultimo e unico sprint che agosto mi ha concesso, sono andato a scavare ancora una volta tra i dischi che mi sono stati inviati, ma che ho inevitabilmente perso nella mia apatia da ufficio.

E rieccomi qui, ancora una volta, attratto da un nome strano e da un disco breve, come impone la mia soglia dall’attenzione piuttosto bassa: Dada Sutra e il suo EP 1, un primo capitolo, una presentazione, un biglietto da visita che porta ad un mondo di alieni multiformi, nudità, sentimenti esposti. Un mondo che Ryu Murakami avrebbe apprezzato, ma anche Chuck Palahniuk ne avrebbe volentieri scritto. Quattro tracce di cui fa parte che il precedente singolo “big boy“, che vedono finalmente la luce e inquadrano così uno dei progetti più unici e meno collocabili della scena indipendente. Un mix unico di generi ed influenze dal respiro internazionale che finalmente svelano il mondo alieno di Caterina Dolci. “EP 1” contiene un mondo pieno di orrori ma anche la voglia di trovare un angolo di bellezza, non farsi schiacciare, continuare a vivere, sentire, evolvere. 

Dada Sutra ha creato la sua personalissima Fabbrica Di Cioccolato, con i suoi umpa lumpa, rigorosamente schiavizzati e seviziati, che viaggiano in un tunnel di droghe e allucinazioni. Insomma, se siete pigri come me e volete andare a un rave… ecco!

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Gli alti momenti di crisi che ho passato quest’estate grazie ai Dejawood

E quest’anno è stata piuttosto dura, posso dirlo? Perchè l’estate scorsa c’era ancora il Covid e allora aveva senso che dicessi di no quando mi proponevano le feste in spiaggia, la discoteca e le cene infinite con tutti i compagni dell’università. Potevo dire che mia madre stava male e che quindi non mi fidavo a farmi vivo ai matrimoni, potevo persino evitare i concerti, quelli che non mi interessavano s’intende, gli amici di amici che suonavano al contest della provincia più inculata che possiate immaginare, e tutte quelle cose collaterali che rendono difficile la vita sociale. Questo mondo non è fatto per gli introversi che si ricaricano stando da soli, le vacanze e l’estate in generale per gli introversi dovrebbe essere un ritiro spirituale, solitario e silenzioso, e invece in vacanza gli introversi finisce che si stancano ancora di più.

Ed eccomi qui invece in quest’estate dannata dove se eviti tutto e tutti non sei responsabile per tua madre che sta male, ma sei un coglione che preferisce passare le giornate ad ascoltare dischi e a scriverne, senza vedere nessuno. Ed eccomi qui, in questa cameretta dove sono cresciuto, mia madre che in realtà è morta nel 2018 quando il Covid non c’era nemmeno, a non fare assolutamente niente. Alti momenti di crisi riempirà la prossima ora immediata, un disco che non avevo avuto tempo di ascoltare quando era uscito, e invece ora posso addirittura lasciare in loop tutto il giorno, perchè da fare non ho assolutamente niente. E non c’è titolo più adatto per segnare quest’estate di rifiuti.

Un disco che contiene i primi due anni del progetto musicale, nato nel più complicato dei periodi, e qui rappresentato dalla focus track “Intrisi”, il primo brano, che racchiude in sè tutte le sonorità dell’album: analogiche ed elettroniche, il sound desertico e quello urban, un racconto di una notte all’eccesso, tra luci ed ombre, in cui i momenti di lucidità si mescolano a percezioni incerte. Influenze diverse che si intrecciano, come gli I Hate My Village ma più accessibili, come il rock che ascoltavo al liceo, ma senza sentirmi un coglione. I Dejawood potrebbero essere la mia band preferita, quella per cui in fondo uscirei anche di casa per andarmela a vedere.

Respirate, perchè potreste ritrovare la voglia di vivere. Io che sono un caso davvero disperato ho avuto qualche dubbio a riguardo, quando mi è venuta voglia di concerti, rave, liceali impazziti e addirittura una sbronza. E’ tantissimo che non mi prendo una sbronza, la cosa che più si avvicina è decisamente questo disco.

SP

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L’estate che è stata segnata dal nuovo album solista di Tobjah

Cercherò di spiegarvi in breve perchè “La via di un pellegrino” di Tobjah è il disco che mi ha salvato l’estate, e che spero mi terrà qui, in quest’estate quasi perfetta fatta di solitudine e libri, ancora a lungo. Perchè di fatto in estate mi sento sempre un cretino, tutti che fanno questo e quell’altro e che lo postano su Instagram, e io che come uno scemo rimango a Milano a non fare assolutamente niente, a fissare il vuoto e ad amare donne incredibili, prima fra tutte Madame Bovary, ma quest’anno anche con Agnes Grey (bruttina e sottovalutata, lasciatevelo dire) ci ho dato dentro. Mi sento un outsider, mi sento male, mi sento solo. Le mie estati sono sempre così, una catarsi che si conclude a settembre, dove mi preparo ad accumulare nuovo dolore da espiare l’anno prossimo.

E quest’anno, scavando come sempre tra le uscite che mi sono perso durante le mie giornate di macchina, lavoro, ufficio, aperitivo con gli amici e letture distratte e interrotte dalla stanchezza, mi sono incagliato in La via di un pellegrino. Un disco che suona primordiale, sentito, viscerale, un disco primitivo che non rinuncia all’elettronica, in cui Tobjah mi accompagna in quest’estate di solitudine che, inevitabilmente, racconta la mia vita. Era da parecchio che non avevo un legame così adolescenziale con un disco, come quando pensi che ogni parola, ogni nota, parla di me. Mi ricordo come fu con i Verdena, e tutte quelle mattinate ad andare a scuola ad ascoltarli. Con Tobjah è stato esattamente così, è stato la colonna sonora di dolore e noia, anche se la scuola è finita da un pezzo.

Il disco, fuori per l’etichetta indipendente TEGA e già stato anticipato dal singolo “Nuova Stagione”, è un cammino tortuoso tra luce e oscurità, dove attitudine dub, reminiscenze hip hop e atmosfere ambient incontrano la canzone contemporanea. Un nuovo inizio che arriva alla fine del mondo, quando il Covid sembrava ci avesse tolto tutto, senza passare dal via. E in quest’estate che è sembrata la prima normale da un po’, io non ho avuto quasi la forza di uscire di casa.

Grazie Tobjah.

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Jali Babou Saho ci ragala “Tamalla”, che per noi può essere la fine della più dolci delle estati

Non smetterò mai di dirlo: in estate si crea questo strano limbo bellissimo dove si ha l’illusione di avere tempo per fare tutto, e io mi tengo stretta l’illusione di avere il tempo di leggere tantissimo, di ascoltare tutto ciò che voglio, con la concentrazione che mi merito e il vento del mare che mi attacca il sale alla pelle. Voglio le docce infinite e le mattine con i caffè che durano più di una conversazione spicciola con la mia ragazza, non riuscirò ad adeguarmi facilmente, e di nuovo, alla doccia pre ufficio e ai ciao distratti di Emilia che neanche si ricorda della mia esistenza talvolta. Settembre non è mai un nuovo inizio, ma una carneficina dell’ispirazione. A settembre io perdo tutto, il tempo di ascoltare e la voglia di fare qualsiasi cosa.

Ed in questo clima, di libertà estrema e calda prima di una nuova fine, ho scoperto Jali Babou Saho, scavando in chili di mail che mi arrivano tutti i giorni e che prontamente ignoro c’era custodito questo piccolo capolavoro dal titolo Tamalla. Un disco che nasce per un’urgenza artistica dopo l’incontro con il chitarrista Francesco Mascio e che vanta la produzione eccezionale di Riccardo e Daniele Sinigallia. Sei tracce originali, registrate in presa diretta con Maurizio Loffredo, Daniele e Riccardo Sinigallia, presso gli Artigiani studio di Formello; le canzoni spaziano nell’ambito dell’ afro-blues, afro-jazz e world music. Un intreccio di sonorità elettriche e acustiche, in cui le radici della musica mandinka, evolvono in una visione moderna, dando vita ad una interpretazione dell’artista del tutto personale. 

Baboucar Saho, in arte Jali Babou Saho, nasce a Banjul, in Gambia, nel 1983. Inizia a suonare la kora fin dalla tenera età, grazie al suo primo maestro, suo padre Jali Jankuba Saho, musicista di fama internazionale, il quale gli trasmette i primi insegnamenti della tradizione dei griot (cantautori dell’Africa).  Seguendo le orme paterne, inizia molto presto a esibirsi in numerose occasioni, girando molto sia nel suo paese, che nei paesi vicini come il Senegal.

E quindi eccomi qui, nella mia macchina, immobile nel cuore di agosto, ad ascoltare questo disco che proviene da terre inespolarate, una commistione di suoni e sapori che esplodono e arrivano, come universali, a chiunque. Un portale di relax che si infiltra nel mio petto, e che mi pento di non aver scoperto prima, perchè sarebbe stata una preziosa compagnia in tempi bui. E spero che lo sarà ancora, una volta che arriverà settembre.

CR

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Cosa c’è nello Studio 2 di Cristopher Bacco

Realtà ormai ben radicata a Padova, lo Studio 2 di Cristopher Bacco compie 10 anni emergendo dalla pandemia più forte che mai: uno studio di registrazione e non solo che fin da subito si è affermato come di riferimento per ogni tipo di artista. Nel corso degli anni infatti, lo studio ha raggiunto artisti e gruppi provenienti da tutta Italia, lavorando con nomi del calibro di The Winstons, Bobby Solo e Marco Cocci ampliando sempre di più la clientela e i servizi per chi è in cerca di un Recording Studio all’avanguardia.

Noi siamo stati lì, ed ecco cosa ci ha mostrato Cristopher.

Questo Farfisa Compact Duo suona dal 1967. Attraverso i suoi circuiti sono passati più di quarant’anni di musica. Mi affascina il fatto che questo strumento, prodotto a Recanati, venisse usato dai Pink Floyd e da tantissime altre band in alternativa all’organo Hammond perché più economico e “leggero”. Ora trova moltissimi estimatori nel pop e nel lo-fi, ci sono addirittura case di software che ne fanno dei virtual instrument. Questo poi è numerato, il 75 su 370.

A questo gatto giapponese (il cui nome, a quanto pare, sarebbe Maneki Neko) sono molto affezionato. È entrato in studio come regalo da parte di Marco Cocci durante le sessioni di registrazione dell’album Steps. Da allora non ne è più uscito, e saluta chi entra nella sala di regia dal fondo della stanza. Una delle cose più bizzarre che mi abbiano mai regalato.

Questa targhetta me l’ha regalata la mia fidanzata e la custodisco gelosamente sopra il mio mixer. Venne a trovarmi a Londra durante una sessione di mix che stavo tenendo allo Studio 3 negli Abbey Road Studios, e per ricordo di quei giorni meravigliosi decise di acquistarla allo shop ufficiale. È una cosa facilmente acquistabile, ma ci sono affezionato perché mi ricorda quel periodo pazzesco tra Padova e Londra.

Questo microfono mi arrivò tramite uno scambio di strumentazione da studio con un collezionista di Milano. L’Akg d19 è uno dei microfoni più importanti della storia del rock. La sua membrana ha vibrato con i suoni di The Beatles, Rolling Stones, David Bowie e molti altri. Era uno standard negli anni 60/70 e per me lo è tutt’ora. Pensare che era il microfono usato per registrare la batteria di Ringo Starr mi da i brividi.

Il Vox AC30 l’ho selezionato perché è il mio amplificatore da chitarra preferito, e questo esemplare, in particolare è l’unico ad essere nello Studio 2 dal giorno uno. È sempre lui ed il suo suono è presente nel 90% delle produzioni uscite dal mio studio.

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La seconda adolescenza estiva di Saera

No, metto subito le cose in chiaro e quello di Saera non è a tutti gli effetti un disco estivo, quanto piuttosto il mio disco estivo, uno di quelli che avevo segnato su mille post it, salvato in una mail che mi era arrivata e che non avevo più ascoltato, preso dalla frenesia di una vita cittadina che ora che è agosto, mi sembra che non abbia avuto più senso. Questo di Saera è la mia estate sospesa, fatta di temporali estivi, tanta solitudine, tante letture, tutte quelle che non ho fatto durante la mia vita reale, e persino qualche rimpianto. Vorrei solo che qualcuno avesse condiviso con me queste cinque tracce mentre mi muovevo con uno zombie sulle strade incandescenti di Milano, dove mi muovevo in macchina in queste settimane per fare quella o quell’altra cosa.

Perchè questo disco, che è di un pop delicato e incredibilmente ballabile, sembra la colonna sonora indie di qualche blog sperduto su Tumblr, di una festa sulla spiaggia di una puntata di Skam Italia, dove qualcuno ha il cuore irrimediabilmente spezzato. Sappiamo tutti che passarà, che non si può rimanere rotti a diciassette anni, però fa così male lo stesso, perchè niente fa più male a noi millenials come ricordarci la nostra prima cotta estiva, ineluttabilmente finita male. Saera riesce a toccare proprio quelle corde, quelle che ti tengono incollato alle serie per adolescenti anche se ormai hai trent’anni, quelle che ti fanno romanticizzare la tua insulsa routine e soffrire come un cane.

Una scrittura matura e una voce ammaliante, trascinandoci dentro atmosfere chill e avvolgenti: la fine dell’adolescenza, relazioni tossiche e nuove malinconie estive. Un EP che inizia a prendere forma nel 2018 e attraversa tre anni di crisi e domande esistenziali, che suona spensierato e drammatico allo stesso tempo: brani suonati a mezzanotte in una cameretta per far sparire tutto quello che resta intorno, brani sinceri e spesso anche un po’ arrabbiati, un’esigenza artistica di Saera che non poteva che portare il suo nome.

Vorrei scrivere a Saera che mi ha fatto passare una pessima estate sinora, con quelle sue movenze R&B e quella sua voce da bambina che nasconde una potenza che suonerà sempre naturale e facile, invidio tutti quelli a cui le cose sembrano venire naturali. Preparatevi insomma a tirare fuori i traumi del liceo, a rivivere come un tempo la cameretta che avete lasciato a casa dei vostri genitori.

CM

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Respiro è l’EP d’esordio di Rea

Rea, dopo la partecipazione all’ultima edizione di Amici, pubblica “RESPIRO” l’EP d’esordio disponibile su tutte le piattaforme digitali da venerdì 8 luglio per Vertical Music Records.

Le 6 tracce di questo lavoro inaugurano un percorso inedito che si discosta dalla produzione più mainstream dei pezzi presentati nel pomeridiano di Maria De Filippi per andare verso lidi più ricercati e personali. Per raccontare il viaggio dell’ultimo anno di Rea, è stata realizzata un’ cortometraggio di presentazione, visibile al seguente link.

Un concept album incentrato sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta,  dove dominano le strade di Bologna a fare da scenario di incontri e sguardi che si incrociano, vicoli che rappresentano i costanti bivi che ci troviamo a dovere imboccare per trovare la giusta direzione a ogni ambito della nostra vita.

Abbiamo chiesto a REA di rispondere alle nostre domande:

Il tema centrale è l’adolescenza, come è stata la tua?

“Travagliata, alti e bassi come per tutti. Sono sempre stata molto curiosa di fare nuove esperienze”.

La frase che ritieni sia la migliore per riassumere l’intero Ep e perché?

“Cosa ne pensi di una nuova vita?. È una frase contenuta in Respiro.E riassume secondo me molto bene il concetto chiave dell’ep ovvero il cambiamento”.

Sei reduce dal sold out nella tua Bologna, dove ti eri esibita anche per presentare in anteprima questo Ep. Che risposte stai ricevendo dai tuoi fan?

“Molto positive, le persone che mi seguono sono super attente a tutto quello che faccio e dico, riescono a cogliere dettagli che magari neanche ho detto e questa cosa è super”.

Concerti e progetti futuri?

“Ho fatto diversi concerti tra giugno e inizio luglio, mi sono presa 10 giorni di vacanza e adesso torno in studio, ci sono dei progetti in ballo ma non voglio anticipare molto. Continuate a seguirmi per rimanere aggiornati”.

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Myle, personale e corale, con personalità: la recensione!

Un disco ricco, intenso, lungo come si faceva una volta, ma anche originale: “Is not here” è il primo lavoro da solista di Myle, pubblicato di recente e in grado di catturare l’attenzione grazie a 14 brani composti ed eseguiti con cura. 

Con la collaborazione di grandi nomi come Colin Edwin, Nicola Manzan, Thøger Lund, per un lavoro che il musicista emiliano definisce “personale e corale”. Ed è una considerazione realista: il feeling che traspare è sempre quello “da band”, ma le storie raccontate e la personalità sono indubbiamente individuali, come si conviene a un disco da songwriter. 

L’impronta del cantautorato americano, più ancora che semplicemente anglosassone, si esprime spesso in brani ora elettrici ora più acustici, ora molto fluttuanti e aerei, ora decisamente ancorati a terra da sonorità vibranti e anche ronzanti. Succede anche che ci siano brani che presentano entrambe le facce, come una multicolore “Forget Berlin”, che apre il disco. 

C’è anche la voce di una soprano, a un certo punto di “Wintersend”, una delle canzoni più significative di “Is not here”. Diciamo questo non per sottolineare l’attitudine vintage, quanto la propensione a utilizzare qualunque mezzo pur di ottenere l’effetto desiderato. Anche una voce lirica, in fondo non tanto illogica se si pensa che Myle arriva pur sempre dalla terra di Giuseppe Verdi. 

C’è l’attitudine al viaggio, mentale o effettivo, che contraddistingue alcune delle tracce. Così come l’esplorazione di argomenti del tutto umani, come la dipendenza sessuale e affettiva (“Honeymoon”), la guerra (“The Game”), il dualismo e le tematiche trans (“Revolution”), la ricerca dell’assoluto (la stessa “Wintersend”), oltre ad altri brani che pescano direttamente dal vissuto dell’artista, anche dai momenti più dolorosi. 

In conclusione, un disco davvero molto significativo, sicuramente alieno dalle mode ma profondo e intenso, che merita senza dubbio ascolti approfonditi e ripetuti per essere apprezzato al meglio. 

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Le cinque cose preferite di Ciano

Avvertimenti, amore e fiori: MIMOSE è il nuovo singolo firmato da CIANO, per un percorso che sicuramente sarà molto colorato e porterà al nuovo album del cantautore pugliese. CIANO è un colore tra il blu e il verde, uno dei tre primari nella composizione sottrattiva dei colori, anche pseudonimo di Luciano Rivizzigno.  MIMOSE è il suo nuovo singolo: un racconto in musica di un’esperienza sentimentale inebriante, con trasporto emotivo perfino eccessivo, come capita a volte di cogliere quei fiori tanto meravigliosi quanto potenzialmente velenosi. La canzone ha l’intento di raccontare la disincantata e spietata realtà, un susseguirsi di immagini colorate di un amore appassionante, veemente, energico, dolce ma non sdolcinato.

Questo brano inaugura una serie di canzoni che saranno pubblicate singolarmente e che andranno a comporre l’omonimo album, con sonorità che scavano a piene mani nel grande panorama del cantautorato anni Ottanta, raccontato da metafore ironiche e incredibilmente dirette. Un nuovo percorso artistico per CIANO, che ne scrive i testi, ne cura le voci, i cori e il basso. 

Noi come sempre gli abbiamo chiesto quali sono le sue cinque cose preferite.

La campagna

Adoro la campagna e non riuscirei a vivere senza. Non esiste al mondo nulla che mi ispiri di più della terra, gli ulivi e alberi di agrumi, mi ricordano la mia infanzia, ma mi rammenta anche dove mi piacerebbe trascorrere la mia vecchiaia.

I dischi in Vinile

Mi piace collezionare dischi in vinile. Il poter toccare con mano agli album che hanno fatto la storia della musica poter ascoltare il suono caldo della puntina che striscia, un esperienza impagabile che mi arricchisce ogni volta. Beatles, the Smiths, Radiohead, Battiato, Battisti, sono solo alcuni artisti che conservo gelosamente sulla mia libreria. 

Viaggiare

Nei miei viaggi c’è sempre posto per una “chitarrina” in valigia, non che passi le mie vacanze a suonare da solo sulla spiaggia, anzi tutt’altro, ma dopo ogni viaggio le canzoni risuonano sempre in un modo diverso, nuovo più maturo. I posti di mare cono quelli che preferisco, Grecia, Spagna, Italia, niente resort extra lusso o villaggi, prediligo vacanze on the road, quanto più veraci e vere possibile. 

Fare il Pane

Nella mia famiglia siamo tutti panificatori, da tre generazioni ci tramandiamo l’arte bianca e dopo la musica la mia più grande passione è proprio l’arte della panificazione. Sono cresciuto con le mani in pasta, non so come sia la vita senza fare il pane è una costante che mi accompagna da sempre, semplicità che contraddistingue questo mondo è diventato per me un vero e proprio stile di vita.

Scrivere canzoni

Scrivere canzoni è la cosa in cui più mi sento a mio agio che mi viene più facile e naturale. E’ un bisogno irrefrenabile è il mio più grande vizio e la mia più grande e disperata passione.

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Le 5 cose preferite dei Maydon

Il gruppo piemontese Madyon ha recentemente pubblicato il nuovo disco “Madyon: Live 3022”. Un concentrato di musica dal vivo che ripercorre la loro carriera e ci prepara a quello che sarà il loro futuro. Noi abbiamo chiesto al frontaman Cristian Barra quali sono le sue 5 cose preferite.

VanillaSky

Si tratta del remake americano del film “Abrelosojos” di Alejandro Amenábar, ma ammetto di averlo scoperto dopo averlo guardato.Ricordo ancora quando nel 2001 mi sedetti al cinema molto titubante, senza grosse aspettative, dopo aver visto un trailer che faceva pensare a tutt’altro genere di film, molto più “normale”. Senza spoilerare niente a chi non l’avesse mai visto, da metà proiezione in avanti ci si trova nel mezzo di un viaggio mentale sconcertante, contornato da una fotografia curatissima e una colonna sonora che passa dai Radiohead ai SigurRòs. Lo riguardo ogni 2/3 anni circa e da vent’anni, ogni volta, il finale mi lascia sempre la stessa sensazione.Sicuramente ciò per la prima volta che mi ha fatto approcciare al genere fantascientifico/cervellotico da cui deriva il mondo che fa da contorno alla nostra musica, e in ultimo l’ambientazione di “MADYON :: LIVE 3022”. Spesso inoltre mi guardo anche attorno per verificare la presenza del mio personale “Supporto Tecnologico”. Questa era per chi l’ha visto.

Scoprire musica e band che non conosce nessuno

Grazie ai correlati sulle piattaforme di streaming, oggi non è così difficile. Basta essere ben disposti e propensi ad accettare il nuovo senza essere condizionati dai numeri. Ascolto band che fanno numeri piccoli, come quelli dei Madyon, e alcune loro canzoni a casa mia o nella mia macchina sono delle vere e proprie hit. Ne volete una prova? Provate ad ascoltare“Oh The Silence”degliOctober Drift, piuttostoche“Hostages”deiThe Howl And The Hum. Ah, e se vi piacciono le loro canzoni, scriveteglielo sui social, non essendo superstar internazionali vi risponderanno, esattamente come facciamo noi.

Trasformare un’idea ambiziosa in totale realtà.

Di mezzo ci sono i sacrifici, il tempo rubato agli affetti, le frustrazioni e la stanchezza… ma quando vedi concretizzata l’idea che mesi prima era soltanto un pensiero, è una delle cose più soddisfacenti della vita. Il 100% però lo si raggiunge soltanto se ciò che si è creato è esattamente corrispondente a ciò che si era immaginato, in tutti i suoi microscopici dettagli. Nel caso dei Madyon non parlo soltanto di suoni e musica ma anche del concept, dell’immagine, degli abiti, insomma di tutto il mondo che avevo in testa.

Non sono molto bravo a delegare, anche perché in passato ho avuto brutte esperienze in merito alla qualità dei risultati ottenuti. E così ogni singolo prodotto di concetto, di grafica, audio e video legato alla band, passa fisicamente dalle mie mani. Tante volte è snervante, soprattutto perché la stanchezza in certi momenti ti fa pensare “Chi me l’ha fatto fare?”oppure “Chissà cosa stanno facendo gli altri mentre io sono qua a sgobbare per tutti”. Ma la verità è che non lo sto facendo per nessun altro se non per me stesso. Lo sto facendo per ottenere quella sensazione impagabile che si ha quando si guarda ciò che si è realizzato con le proprie mani e ci si accorge che si tratta di un risultato al livello delle referenze che si avevamo in partenza. Quella sensazione che ti permette di guardarti allo specchio pensando “ok, non sono un mediocre”.E credetemi: saper suonare uno strumento o cantare nel caso di progetti di questo tipo rappresenta una percentuale bassissima. Forse nemmeno il 10% del totale. Quelle sono competenze che bisogna dare per scontate, come saper cucinare se si vuole aprire un ristorante. Di musicisti e di musica ne è pieno il mondo, credo addirittura che la posizione di ogni musicista sul nostro palco potrebbe essere sostituita da chiunque altro, compresa la mia. Questo perché a far la differenza è tutto il resto di ciò che sta attorno al nome MADYON.

La Formula 1

Vado letteralmente in tachicardia per la Formula 1. Perché? Perché non è il calcio dove ci sono migliaia di squadre e milioni di posti disponibili. In Formula 1 ci sono 10 team e 20 piloti. 20 posti disponibili, non uno di più. Persone con le capacità e l’attitudine di un pilota di caccia, chi più chi meno.

Per anni chiamata la Dormula 1, in questi anni è finalmente rinata grazie a regole e macchine che hanno livellato il gap tra i team e ad una bellissima serie Netflix cheha riportato le attenzioni del mondo sui retroscena dello sport ingegneristico per eccellenza. Uno sport meritocratico. Se vinci il mondiale di Formula 1 non è per merito di un rigore dato. Vinci perché tu e il tuo team siete stati i più bravi a livello analitico. Ah, dimenticavo… tranne l’anno scorso dove all’ultima gara il mio ragazzo è stato derubato del suo ottavo titolo mondiale.Ma non svegliamo il tifoso che è in me. Lo faccio per voi.

Uscire o viaggiare da solo

Amo uscire la sera o fare un viaggio da solo. Trovo che si aprano livelli di analisi interiore molto più profondi, cosa che non sempre può avvenire in gruppo, dove alla fine c’è il bisogno di ricoprire il proprio ruolo. Questo non significa che il viaggio o la serata debbano essere passati in totale silenzio o solitudine, anzi. Si passa dal chiacchierare col proprietario di un pub alle storie di un signore che si trova in viaggio di lavoro in quella zona. Alcune dinamiche sociali non potrebbero scaturire in gruppo poiché lo stesso è spesso un circolo chiuso, non predisposto alla socializzazione.