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Elettronica Pop Post-Punk

Cosa c’è nella camera di Decrow

Esce venerdì 17 giugno 2022 in distribuzione Believe Digital “Cuore Aperto“, il nuovo singolo di Decrow ft. yuks. Primo capitolo atipicamente estivo, energico e dalle sonorità pop-punk, questo brano segue il precedente singolo “Laser”  e ci riporta nel mondo sopra le righe delle feste notturne e dei dopo sbronza. “Cuore aperto” parla di una relazione d’amore tossica sull’orlo della fine in cui le ansie date dalla paura di perdere l’altro causano il batticuore e affanno.

Noi come sempre abbiamo deciso di fare un salto a casa sua, ecco cosa ci ha mostrato.

Questo scaccia sogni è stata una delle cose più fuori di testa che mi sia mai venuta in mente. Era un periodo che soffrivo di incubi e una mia cara amica che a differita mia crede al soprannaturale mi aveva regalato questo bellissimo scacciasogni. Ovviamente la situazione non migliorava. Poi una volta durante un videoclip avevamo legato delle lamette a un filo e io ero stato rapito dal rumore che facevano le lamette sbattendo tra di loro. Quindi tornato a casa ho fatto un po’ di fili con legate le lamette e le ho attaccate allo scaccia sogni. D’ estate il rumore delle lamette quando lo scacciasogni veniva mosso dal vento per me era ipnotico e mi faceva dormire come un bambino.

Un po’ scontato ma ci tengo tantissimo: ho questo armadio da una vita veramente. La cosa bella è che dall inizio ci attacco adesivi solo se lo stiker che ci sto attaccando mi ricorda una cosa fica della serata in cui ho rimediato L’ adesivo. Quindi ci sono adesivi che non c’entrano niente con la mia persona ma se sono venuto in possesso di quell adesivo per un motivo x che mi ricorderò per sempre quello stiker si merita un posto sul mio armadio. Direi che di momenti indimenticabili ne ho avuti. Pensa che faccio la stessa cosa con i tatuaggi. Non mi tatuo cose belle, ma cose che mi ricordano il momento in cui mi sto tatuando e perché.

Le casse che mio padre mi ha regalato ormai 10 anni fa. A sua volta lui ci ascoltava la musica quando era ragazzo. Hanno 50 anni forse ste casse. Per me sono importanti perché le guardò e penso che tutta la musica che hanno ascoltato loro spero di riuscirla ad ascoltare anche io nella mia vita. Mio padre è un grande ascoltatore di musica. Si sente veramente tanti generi e queste casse lo hanno seguito per gran parte della sua vita e secondo me seguiranno anche fra parte della mia.

Questo è uno dei quadri più belli realizzato da mia madre secondo me. A lei neanche piace tanto infatti la attaccato al bagno. Invece a me piace perché consapevole del fatto che rappresenta una angoscia, una tempesta, o dei capelli ricci che non vogliono stare al proprio posto se vuoi, Comunque qualcosa di caotico e frenetico, a me mette tranquillità. Lo guardò e mi sento a casa. Fa bene guardare un po’ di caoticità esterna quando ne hai tanta dentro di te ahahah

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Post-Punk

Le 5 cose preferite dei Ragazzi del Massacro

I Ragazzi del Massacro tornano con un nuovo disco, “Juvenile Street”. Un lavoro dal sapore Noir che ci riporta indietro nel tempo sino agli inizio degli anni ’80. Per conoscerli meglio ci siamo fatti dire quali sono le loro 5 cose preferite.

MILANO

la città che ci ha accolto e che ci dà ispirazione, occasioni per creare e dove vorremmo che le occasioni live per le band indipendenti fossero più sviluppate.

In quanto motore di tante cose in Italia, non sarebbe male fosse anche un incubatore di proposte meno mainstream. Per il set fotografico del nuovo album abbiamo scelto proprio panorami della zona milanese dove proviamo dove abbiamo cominciato e dove facciamo musica.

LIVE

Inteso come musica suonata per creare un canale con il pubblico. Musica Live che è in sofferenza in questo periodo ma che speriamo torni a essere protagonista. “Juvenile street” la tille track è stata registrata praticamente in ambito live, anche se in studio proprio per mantenere l’immediatezza di un brano nato in soli pochi giorni.

NOIR MILANESE : DERIVAZIONE DEL NOME DEL GRUPPO

I ragazzi del massacro è il libro di Scerbanenco ambientato a Milano e ambientato proprio in zona Piazzale Loreto dove viviamo, proviamo e che soprattutto io come cantante della band ho sempre vissuto. Noise of the bombs è un brano che racconta proprio della vita ai margini in periferia, dove le bombe non sono solo quelle che cadono in guerra e la strada diventa un campo di battaglia.

IL VINTAGE

Inteso come attitudine, come sound, attitudine perché poco social poco avvezzi agli strumenti tecnologici per promuovere la musica, fare vinili e dischi come prima scelta, infatti abbiamo scelto di stampare New kind of Sex e Big one in formato 45 giri, In modo che anche i Dj underground possano metterli in scaletta.

POST-PUNK

Il genere da cui attingiamo maggiormente il nostro stile, i brani simbolo sono “She Doenst’ wanna come back” e After Midnight, di chiara matrice garage ma che spaziano in influenze rock and roll e  energia punk.

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Internazionale Post-Punk

Le 5 cose preferite dei Viboras

I Viboras hanno recentemente pubblicato il nuovo disco “Eternal” (Ammonia Records). Un lavoro che sprigiona energia da ogni nota e che piacerà a tutti i fan del punk rock ma anche a chi nella musica ricerca la carica giusta per affrontare la vita. Abbiamo chiesto loro di dirci quali sono le 5 cose che preferiscono.


Rancid

Tutto inizia da loro o meglio tutto inizia ancora da loro. Non hanno inventato il punk ma hanno fatto in modo che il meglio dell’attitudine si combinasse con la modernità e il rispetto per il passato. Per noi restano un punto di partenza sempre attuale, il primo trittico della loro carriera ci ispira ancora oggi, se ascoltate bene tra le tracce di Eternal li troverete sicuramente


Animali

Molti dei nostri pezzi parlano di amicizie sincere e a volte perdute. Molti di questi amici sono i nostri amatissimi animali, esseri che hanno sempre molto da insegnare ai bipedi. Inoltre come band e singoli sosteniamo alcune associazioni senza scopo di lucro che difendono animali in gravi difficoltà e oggetto di violenza spesso per il triste uso che si fa in vari modi dei loro corpi.

Tatuaggi

Ci caratterizzano, in particolar modo i traditional, al punto che da sempre ne facciamo uno stile di vita. Non li abbiamo solo sulla pelle ma anche  nelle nostre canzoni. Fiori, figure sacre, spine, serpenti, cuore e sangue sono tra le nostre figure ricorrenti. Per noi rappresentano tutta la sofferenza ma anche la rivalsa che si può avere nei confronti di una vita che ti ripaga solo se ci credi fino in fondo. Scrutate la copertina di “Bleed Eternal” (vinile che unisce i due ep) disegnata da Irene mentre ascoltate “My Fate” e capirete.


Dal Tramonto all’alba

Un film che ci ha segnato. Un concentrato di tamarraggine in cui ci identifichiamo completamente a partire dalla bifasicità della storia. Un concentrato di Pulp, vampiri e mariachi incazzati. La track portante del film (ricordate l’entrata di Salma Hayek) di Tito & Tarantula completa una storia in cui ci vediamo a pieno. Viboras e Dal tramonto all’alba? Ma certo!

Maculato

Ma quanto ci piace, sta bene ovunque! Calze, tracolle, giacche, chitarre e tutto ciò in cui si può inserire. Ovviamente rigorosamente falsissimo perché come si è già dedotto siamo animalisti convinti. Stranamente non lo abbiamo mai usato per un artwork, probabilmente sta bene ovunque ma non su una cover…o forse si. Si vedrà!

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Post-Punk

Il ritorno dei Gomma

Lo scorso maggio sono usciti i primi due singoli del nuovo album dei Gomma, Guancia a Guancia e Iena. All’inizio della pandemia, Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo, con un post su Facebook, annunciavano di voler trasformare il periodo buio che stavamo vivendo non in delle performance in streaming o dei messaggi motivazionali, ma in un’opportunità per riflettere, scrivere e reagire creando nuova musica.

E’ così che è nato il loro ultimo album, Z***** C****** (spoiler di Paolo!), che, come anticipano già i primi due pezzi, sarà sincero, violento, maturo e più ragionato nella scrittura e nelle emozioni che lo hanno influenzato rispetto a Toska e Sacrosanto.

Guancia a Guancia è un pezzo che ci urla in faccia la brutalità della realtà, quella delle abitudini di tutti i giorni, accostata alla paura e allo scetticismo del periodo in cui è nato l’album. Iena è pieno di rabbia e chitarre esplosive e, in un grido di insofferenza e di aiuto, Ilaria sembra chiederci: ‘ma voi vi fidate della realtà? E come fate?’.

Anche il video di Guancia a Guancia, diretto da Joseph Di Gennaro e Gianluca Fatigati, mette al centro la percezione del tempo, delle emozioni, della realtà, dei ricordi e lega tutto questo alla tecnologia, con un esperimento che affida all’intelligenza artificiale la rielaborazione di tutti i videoclip già pubblicati dalla band.

Abbiamo parlato con il gruppo post-punk casertano di questo video, del nuovo album, del loro Sud, della musica e di alcune particolari sensazioni e loro ci hanno regalato un bel po’ di riflessioni interessanti.

Ciao ragazzi! Prima di tutto, come va in questo periodo? Vi eravate resi conto di quante persone erano lì ad aspettare il vostro ritorno?

Paolo: Non lo so in realtà. Almeno io mi sento come se fossimo arrivati all’ultimo boss di un videogame, sconfitto questo c’è una porta che ci conduce su un palco su cui ci siamo noi che suoniamo, e questo pensiero mi rende felice. Spero solo di avere abbastanza pozioni nello zaino per superare senza problemi questo stronzo. Non penso di essermi chiesto quante persone ci siano dietro quella porta, ma spero di rivedere vecchi e nuovi amici.

Ilaria: Ciao, inizia ad andare meglio anche se la paura che crolli tutto c’è sempre, solo sta iniziando a diventare più semplice gestirla. Non credo ne siamo mai stati in grado, abbiamo avuto sempre questo limite è da ammettere.

Giovanni: Alti e bassi. Per ora stiamo ricevendo un sacco di amore, e questo vuol dire che più di qualcuno è riuscito a empatizzare con la nostra musica, ma un vero contatto potrà essere ristabilito solo con i live.

E quindi state già pensando ai primi live post pandemia o aspetterete che si torni alla ‘normalità’?

Paolo: Ci sto pensando costantemente dall’ultimo live che abbiamo fatto, e non ricordo nemmeno dove eravamo. Questo significa che c’è l’esigenza e la voglia di ricominciare. Il nostro non è un live particolarmente compatibile con delle sedie, se ci pensi quando vuoi organizzare una festa la prima cosa da fare è togliere le sedie nella stanza, ma la voglia di salire un palco è troppo grande. Abbiamo bisogno di suonare e di raccontare questa nuova storia alle persone.

Giovanni: Sarà diverso, ma sarà qualcosa.

Non siete tra le band che, da marzo 2020, hanno fatto di tutto per rimanere in contatto con il pubblico, anzi, in un post su Facebook avete chiaramente espresso il vostro punto di vista, nettamente contrario ai live in streaming e ai messaggi di speranza azzardati che le persone si aspettavano. Voi invece vi siete fermati a pensare, avete scritto, avete suonato e siete riusciti a trasformare in musica e testi i sentimenti di quel periodo. Quali sono state le sensazioni e i pensieri che vi hanno guidato?

Ilaria: Ci siamo allenati, o almeno io l’ho vista così. È stato un intenso addestramento alla guerra che stava iniziando. Era il modo più semplice – e anche che ci viene meglio – per combattere, ma è stato anche antidoto e conseguente cura per me, per certi versi.

Giovanni: Non sono ancora riuscito a interpretare questo periodo storico, ne stiamo ancora uscendo e tardo a metabolizzare tutto. Ci eravamo resi conto che l’unica cosa coerente con noi stessi che potevamo fare era fermarci e ripensare al nostro ruolo, o meglio, al ruolo che la nostra musica avrebbe potuto avere in questo momento. Il risultato è stato un disco molto più “politico” – in senso stretto – dei precedenti, forse meno legato a delle esperienze concrete e più vicino ad una sorta di flusso di pensieri e ragionamenti.

Questa scelta ha confermato il carattere emo/punk della vostra band che si riflette nelle vostre canzoni: nessun perbenismo, tanta insofferenza e provocazione. E per voi cosa vuol dire essere punk?

Ilaria: Avere la cresta ed i polsini con le borchie.

Giovanni: Fare quello che vuoi, come lo vuoi tu, ma esser convinti che sia la cosa giusta. Non credo che oggi possa esistere un punk “non ideologico”. Il resto è tutta estetica.

Il risultato di questo ultimo anno è quindi un album pronto per il lancio, sincero, spietato e senza mezzi termini, come i due singoli che lo anticipano. Com’è stato lavorarci in un periodo difficile per tutti e per voi musicisti in particolare? Avete sentito grandi differenze rispetto al lavoro per gli altri due album?

Matteo: Lavorare in un momento come questo è stato sicuramente una cosa nuova per tutti noi. Almeno per quanto mi riguarda, ho avuto molta difficoltà a fare qualsiasi cosa riguardasse la musica, in generale. A darmi la spinta è stato Giovanni, abbiamo iniziato a scrivere a distanza mandandoci dei provini registrati in camera, è stato un ottimo momento per riprendere a scrivere non potendoci vedere. Scrivere in quel momento ed in quel modo ha preso senso, ed è stato piuttosto rapido. La differenza, invece, l’ho sentita perché non avevo mai scritto delle linee di basso con fuori casa l’apocalisse.

Paolo: Questa pandemia per quanto abbia massacrato tutti, dal punto di vista compositivo ci ha aiutato. Il fatto che tutto il mondo all’improvviso si sia stoppato, che per un attimo abbia rallentato la sua corsa frenetica, ci ha dato la tranquillità necessaria per poter scrivere. Il cambiamento nella scrittura è stato radicale. Sacrosanto, come Toska, è nato nella nostra sala prove,  z….. c…… (ops, spoiler) è nato attraverso uno scambio di demo su Wetransfer. Giovanni ha imparato ad usare un po’ di programmi per registrare tutto da casa, ci siamo adattati, e devo dire che abbiamo sperimentato un nuovo modo di lavorare insieme che ci è risultato molto produttivo. La parola più usata negli ultimi due anni? Smart w.., no dai non la dico.

“Guancia a guancia/ abitudini a sud”: in che rapporto siete con il vostro Sud?

Matteo: Bene bene, dai, tutto a posto.

Giovanni: Amore/odio. Vivere nella provincia al Sud per molti versi vuol dire convivere con un doppio svantaggio. D’altro canto, questo ti permette di avere una prospettiva più onesta sul mondo, anche e soprattutto quello musicale, nel nostro caso. C’è molta meno attenzione sulla scena musicale ma forse questo ci permette di vivere la creatività in modo più libero e meno forzato.
In Italia il mainstream sembra essere polarizzato tra Milano e Roma: vengono tutti da lì o se ne vanno tutti a vivere lì; noi non ne facciamo parte quindi quella dialettica non mi interessa. Il nostro Sud non è nemmeno quello di Napoli che nella sua complessità raccoglie i caratteri della grande città e del vivere spicciolo allo stesso tempo; se mi guardo attorno vedo la periferia, quella vera; credo che i nostri simili abbiano ancora un forte bisogno di essere rappresentati correttamente.

La copertina dei due singoli, così come i video, completano l’immaginario cupo dei due brani. Avete voglia di parlarci un po’ del progetto grafico? Vi siete affidati completamente a Celine Roberti o lo avete ideato insieme?

Giovanni: L’idea è stata sviluppata insieme. Volevamo qualcosa che rappresentasse brutalmente i sentimenti che hanno guidato il disco, sacrificando tutto il resto: la spersonalizzazione, l’idealizzazione del progresso, la ricerca illusoria di nuove abitudini…

Per questo abbiamo inseguito un’idea che graficamente ricordasse i cataloghi commerciali, le pubblicità, le riviste di design/arredamento. Una bella favoletta che abbiamo bisogno di raccontarci per non morire, per fingere che stia andando tutto bene.

Il video di Guancia a Guancia è stato realizzato in una maniera particolare, la descrizione su YouTube è come un pannello esplicativo di un’opera d’arte contemporanea. La percezione distorta dei ricordi causata dall’uso della tecnologia, di cui magari non ci accorgiamo, narrata nel video, e l’estrema chiarezza con cui invece raccontate il periodo di lockdown nella canzone possono sembrare in contrasto, anche se sono collegate. Com’è nata l’idea di questo accostamento brano/ video?

Giovanni: Guancia a guancia ha un testo molto “esplicito” nel suo messaggio, nonostante l’espediente metaforico. Volevamo qualcosa che visivamente evocasse i sentimenti comuni (almeno a noi) del lockdown evitando però un collegamento ‘diretto’. A volte non parlare di un argomento in un modo unidirezionale è il modo migliore per comunicarne l’essenza, penso ad esempio a come vengono evocati gli orrori del fascismo in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini.

Quando Joseph (@pepp.irl che ha diretto il video insieme a Gianluca Fatigati, amici di lunga data) ci ha proposto questa idea ci è sembrata subito la scelta giusta: la distorsione del ricordo passato e la nostalgia per un futuro che non hai mai vissuto, le giornate vuote e la percezione del tempo che corre in sensi opposti. Tutto questo alimentato dalla tecnologia che da tempo contribuisce alla “costruzione dei ricordi”. Il gesto automatico di pubblicare una storia su Instagram o di scattare una foto e immortalare un momento e alla fine chiedersi: Ero davvero io? Erano quelle le mie vere emozioni o erano solo le emozioni che ricordo di aver avuto? Ho creato un ricordo fedele o una falsificazione di quel sentimento?

In un’intervista del 2017 affermavate di non voler fare della musica la vostra professione. Avete cambiato idea?

Giovanni: No. Ma forse è meglio chiarirsi. Non voler fare della musica la mia professione non vuol dire che io non sogni di vivere di questo, di dedicare la mia intera vita a questo. Vuol dire piuttosto rifiutarsi di vivere la musica come un lavoro in senso stretto: non vorrei mai dovermi svegliare al mattino e pensare “ok, oggi devo lavorare, devo scrivere qualcosa”.

Scrivere per noi vuol dire aver bisogno di scrivere; è anche per questo che c’abbiamo messo due anni a far uscire qualcosa.

Di Marika Falcone

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Indie Internazionale Pop Post-Punk

Bibopolare, massaggio cardiaco per un cuore al collasso

Mica facile tornare alla vita, ricordarsi come scrivere di musica dopo così tanto tempo che non lo fai. Le bollette da pagare, gli affitti da sbarcare, il dentista da saldare e una liquidità alienante che ci sta condannando – in modo sempre più disperato e tragicamente “resiliente” – ad assumere le forme di contenitori che non si lasciano individuare ma che, ciononostante, danno una direzione sempre cangiante al nostro existere et cogitare, insomma, la frenesia di una quotidianità sempre più isterica mi ha tenuto, negli ultimi mesi, lontanissimo da quello che più amo fare: scoprire cose nuove, ascoltare musica che emozioni, dare un senso a tutto questo grigiore che attanaglia l’entusiasmo ed uccide la fantasia.

Ci voleva in effetti un disco come quello di Bibopolare – eccentrico cantastatorie (o meglio, auto-terapeuta lucano: ascoltate il suo ultimo lavoro, e capirete cosa intendo) originario di Potenza ma con base a Bologna – per farmi riprendere in mano il filo del discorso, restituendo un po’ di speme a questo corpo lasso e stanco di immondizie musicali (cit.) e di direttori artistici che sarebbero dovuti andare in pensione già quarant’anni fa (ai tempi, insomma, del celebre disco “Patriots” del grande Franco Battiato) e che invece, travestiti da novelli hipster e produttori rigenerati (Frank Zappa docet), continuano a vendere la rivoluzione a colpi di mercato.

Perché si sa, la moda di essere ribelli non smetterà mai di far arricchire editori e discografici sempre ben attenti ai bisogni dei più giovani, che altro non sono che «splendide invenzioni – come direbbe Alessandro Carrera – del XXI secolo» e – da almeno sessant’anni, quando cioè il boom economico ha scoperto il “tempo libero” – pacchetti azionari deambulanti per l’industria dell’intrattenimento.

Bibo, invece, dal bagno di casa sua (sì, quello che sentite nel disco è lo splendido riverbero naturale che si può apprezzare solo nel gabinetto della propria abitazione) ha registrato un disco diverso, che parla di tutte quelle cose che ho elencato sopra e che negli ultimi mesi mi hanno succhiato via a forza la voglia di ascoltare, di scrivere e di crederci: dall’ascolto denso e (volutamente) faticoso di “Com a na crap” – letteralmente, “come una capra” – emergono richiami alle radici e slanci verso un recupero del passato tanto retrò da sembrare futuristico, tanto originario da diventare originale.

E in effetti, “Com a na crap” è un disco che non possono capire tutti, che in playlist non finirà mai perché invece che consolare l’ascoltatore lo prende a pugni, con la crudezza di una poesia amara avvalorata dal filtro sempre malinconico e nostalgico della scelta dialettale, ben lontana qui dal populismo dello stornello o della tarantella (anche se, ben s’intende, nulla vi sarebbe stato di male in caso contrario) ma piuttosto vicino al cinismo onirico di un Trilussa (anche se qui il dialetto usato non è quello romano, ovviamente, ma il lucano).

Bibo racconta di dolori che appartengono alla mia, alla nostra generazione, irrisolti cronici a cavallo tra un passato da inadatti alla responsabilità e un futuro che ci obbliga al protagonismo, senza concedere margini di errore ad un popolo di eterni adolescenti immobilizzati dalla costante svalutazione della propria virtù, dalla disistima inflazionata da una crisi prima valoriale e poi economica, da una licenza di sopravvivenza che ci ha disimparato a vivere davvero.

Insomma, in “Com a na crap” Bibopolare racconta tutti i motivi che mi hanno spinto, come dicevo, a desistere dall’ascoltare musica nuova, dal cercare «nell’inferno ciò che inferno non è» e dal credere che possa servire a qualcosa; allo stesso tempo, nello stesso disco, si annidano tutti i motivi necessari a non smettere di resistere, a non cessare di lottare.

Sapere di non essere soli, in questa disperata trincea, fa bene al cuore rimettendolo al proprio posto, dov’è sempre stato. Qui, trovate qualche domanda fatta all’artista, che ha risposto con la sua proverbiale e serafica semplicità. Su tutte le piattaforme d’ascolto digitale, invece, trovate “Com a na crap”, il disco d’esordio di Bibopolare.

Fatevi del bene: sudatevelo; ne vale la pena.