Di Marco Scaramuzza avevamo già avuto modo di parlare qualche tempo fa, quando aveva consegnato all’etere il suo secondo singolo “Rosa” a poche settimane di distanza dall’esordio con “Cuore di plastica”.
Già allora, ci era sembrato di aver davanti un ragazzo speciale, e se vogliamo diverso da quelli che siamo abituati ad incontrare sui rotocalchi dell’indie nazionale; Marco, in effetti, ha qualcosa di estremamente vintage non solo nella musica che propone (che si ancora saldamente ad una certa tradizione autorale che, come tutte le cose belle, è destinata a non passare mai di moda), ma sopratutto nell’approccio al modo di fare musica.
Sì, perché nell’era della perfezione geometrica di sezioni auree testo-musicali ad appannaggio dei dosaggi giusti di esperti ragionieri discografici, nel secolo avaro delle riproposizioni seriali di altrettante riproposizioni seriali, nel marasma di anonimato che ad ogni venerdì di uscite rinnova la sua (poco) eletta schiera di nuovi volontari all’oblio, Marco si erge con la serenità del totem su tutto un panorama di illusi e disillusi della musica e della discografia facendo quello che gli riesce meglio: essere sé stesso, nudo e crudo (a tratti, anche fin troppo crudo!), e facendosi alfiere di un popolo invisibile (ma presente) che lotta silenziosamente per proporre un’alternativa a tutto questo rumore.
“Gli Invisibili” è un disco che fa pensare, e questo è forse il suo più grande merito. Non è un lavoro impeccabile, sia chiaro: certe cose, e Marco forse lo sa, potevano essere curate meglio in fase di produzione, ma è innegabile che il sentimento di forte urgenza e necessità che il lavoro comunica sin da primo ascolto convince l’ascoltatore ad affezionarsi a tanta convincente imperfezione.
Volete una prova? Ascoltatevi “Libero”, e arrivati al ritornello capirete che per Marco di regole non ne esistono. Se poi avete voglia di farvi mandare in tilt il cervello, la parabola de “L’orto” è quella che fa per voi: più vite raccontate ed intrecciate come matrioske nel giro di valzer di un brano denso, ammaliante e avvolgente.
Insomma, non lasciate che Scaramuzza resti invisibile. Per noi, non lo è già da un po’.
Jo, Kid, Ipa, Role è il debut Ep di Ponee, pubblicato lo scorso 16febbraio2021 per UMARecords, distribuzione SonyMusicItaly. L’EP rinnova quelle formule espressive pop fresche e variegate già intraviste nei primi tre singoli e definisce un nuovo capitolo dell’avventura musicale di Ponee. Quello di Ponee un disco dolce-amore, triste e allo stesso tempo ironico, un po’ come una passeggiata durante un pomeriggio soleggiato, in un cimitero. Per l’occasione, l’ho portato a fare un giro al Cimitero Monumentale di Milano, e gli ho fatto qualche domanda.
Ma il tuo nome si legge con pronuncia british che fa venire fuori una roba tipo Pony o Ponee in senso letterale italiano? Guarda, già che uno ha il dubbio su come si pronuncia per me è un successo. Non ho ancora fatto inserire la parola nei grandi libri dell’Accademia della Crusca perciò al momento non ci sono direttive ufficiali. Io lo pronuncio “pony” ma oramai mi sto abituando a girarmi anche quando qualcuno mi urla “ponee”.
Diversi autori hanno scritto su di te e nessuno, compreso me, è riuscito a dare un solo nome al genere di musica che fai. Tu come la chiameresti? Mi metterei anche io tra gli autori che non riescono a definirlo. Non te lo so dire; ma non tanto perchè sia affascinante non essere catalogati, ma piuttosto perchè davvero non lo so. Anche perchè tendenzialmente sono molto influenzato dagli input del momento quindi spesso vado in una direzione e a volte in un’altra, a livello musicale. Però se fossi legato, minacciato e obbligato a scegliere un genere, direi pop…forse.
Abbiamo ascoltato il tuo ultimo ep Jo, Kid, Ipa, Role. I testi delle tue canzoni esplodono con una certa espressività, le abbiamo trovato belle incazzate, dai. Da dove ti viene fuori tutto sto tormento? In realtà mi fa davvero piacere che – nonostante il sound non troppo sad – ci abbiate colto delle sfumature di “tormento”. Diciamo che tendenzialmente sono abbastanza allegro nella apparenza quotidiana e quindi mi piace usare la vena creativa per sfogare quello che non sfogo in altre situazioni. Di base sono uno insoddisfatto nel profondo, perciò mi viene spontaneo scrivere quello che non va, piuttosto che quello che va; mi coinvolge di più.
Nei tuoi ultimi brani parli un sacco degli effetti dell’emergenza pandemica sulle persone. Quali sono i cambiamenti – sia nel piccolo che nel grande – che ti aspetti di più quando questa situazione si riassesterà? Diciamo che ogni giorno ho nuove opinioni e nuove sensazioni a riguardo; in questo esatto momento sono in una fase di leggero scoraggiamento. Forse una delle cose che più mi colpisce è questo continuo cambiamento di approccio alla pandemia, soprattutto da un punto di vista mentale. Faccio fatica a decifrarne gli effetti sulla mente delle persone e credo che in molti facciano fatica a decifrarsi. Io per esempio per un periodo ho avuto la difficoltà a percepire il tempo e lo spazio, come fossi in un luogo metafisico. Spero che tutto questo porti in qualche modo a una maggiore attenzione a quelle che sono le necessità e i bisogni che fanno bene non solo al fisico ma anche alla psiche; perchè è forse la cosa di cui si parla meno.
Come stai vivendo Milano in questo periodo? Pensi che torneremo mai alla Milano di prima o senti che si è rotto qualcosa? La sto vivendo in un modo davvero strano perchè faccio cose ma non so il perchè. Già prima era un po’ così ma ora mi è più difficile applicarmi al massimo su determinate cose perchè è sempre poco chiaro se determinati piani potranno essere attuati o no. Considera che io lavoro anche nel mondo degli eventi come organizzatore, per cui mi capita di lavorare a progetti che neanche so quando e se potranno essere fatti. Dopo diverso tempo inizia a essere pesante, però sono fiducioso sul fatto che certe necessità sono proprio parte di noi e quindi anche tutto quello che riguarda il mondo di musica, spettacoli, teatri inevitabilmente chiederà e troverà soluzioni per ripartire.
Anticipazioni su progetti futuri? Ora come ora sto lavorando molto in studio, sto scrivendo tantissimo e sto ampliando le collaborazioni. In generale ti posso dire che la volontà è quella di sviluppare il progetto “Ponee” su più fronti, andare oltre a l’aspetto prettamente musicale. In questa creazione di contenuti a 360 gradi mi sto affidando, oltre ai vari collaboratori, a due realtà molto interessanti: Ohana Studio e Superfluo Project.
È uscito il 27 Novembre su tutte le piattaforme digitali “Anedonia” il primo album del cantautore campano Graman. Sette canzoni prodotte da Stefano Bruno (già al fianco della band Riva) , frammenti d’anima messi insieme per raccontare una storia sincera, un racconto senza censure e senza paura. Il filo conduttore di questo lavoro è l’anedonia, cioè l’incapacità di provare piacere o soddisfazione. Una sorta di “anestesia locale” che spesso è un passo indispensabile per sanare le ferite prodotte dalla fine di una relazione. Una sorta di disintossicazione sentimentale che ci permetta di elaborare nuove routine, ricostruire la nostra identità e sanare il nostro autoconcetto.
“Tutto nasce dalle emozioni: ogni volta scrivo spinto da una forte emotività. Ad ispirare il titolo una chiacchierata con mio fratello che è stato capace sintetizzare in un’unica parola il micidiale mix di sensazioni che mi tormentava.”
L’EP anticipato dal singolo “Telecinesi” si muove tra sonorità urban e indie pop, con testi immediati e diretti, che riservano però un lato romantico e nostalgico. Un songwriting in grado di stilizzare una proposta semplice ma che mette l’attenzione sulla sensibilità e sull’esigenza espressiva dell’artista.
In occasione dell’uscita del suo primo abum per Aurora Dischi, noi di Perindiepoi abbiamo fatto qualche domanda a Graman.