“SOTTOZERO” è il primo singolo di FEBBRE, progetto solista di Cristian Pinieri dei LAMETTE distribuito da Universal Music Italia. Il brano parla di una coppia di ragazzi con approcci differenti alla vita. Il ragazzo affronta le sue paure come fossero una sfida da superare, la ragazza è limitata dalle sue ansie e dai suoi mostri che la rendono prigioniera di se stessa. Il sound mescola suoni grunge, con synth ed elettronica, e le top line sono influenzate da una attitude “sangue giovane”, che però riesce a dare spazio anche a contaminazioni urban.
Abbiamo chiesto a FEBBRE di rispondere alle nostre domande:
1. Ciao FEBBRE benvenuto sul Perindiepoi ci racconti come è nato questo progetto e come mai la scelta di questo nome d’arte
Ciao ragazzi, il progetto è nato in maniera molto naturale, avevo un po’ di demo da parte, un giorno confrontandomi con il mio produttore Alessandro Landini abbiamo capito che era arrivato il momento di pubblicare. E il nome in realtà deriva dal titolo di una di queste demo, il file si chiamava solamente febbre.wav, come nome mi piaceva e quindi ho scelto di utilizzarlo.
2. Sottozero è il singolo apri pista del tuo progetto solista, ci parli un po’ di questo brano? Come mai questa scelta di ripartire da solo?
Il brano nasce da una demo chitarra voce nei miei memo vocali, un giorno stavo facendo session con mio produttore ed abbiamo adattato la demo che avevo ad uno dei beat che stavamo cercando di chiudere in quei giorni, è stato così naturale come processo che ho scelto di utilizzare questo brano come apripista per il mio progetto. La scelta di ripartire da solo nasce principalmente da un’esigenza artistica, nell’ultimo anno è nata in me la voglia di mettermi in gioco, di avere pieno controllo del mio progetto e della mia musica, affrontare questo percorso mi è sembrata la cosa più naturale da fare.
3. Rispetto alle sonorità del progetto Lamette non abbiamo potuto fare a meno di notare uno spostamento verso delle sonorità più pop punk, quali sono le tue influenza musicali? con quali artisti ti piacerebbe collaborare?
In realtà le mie influenze musicali sono svariate, riesco veramente a variare dall’hip-hop fino al cantautorato, e ovviamente alla base di FEBBRE c’è la voglia di richiamare le sonorità e l’attitudine di ciò che mi ha influenzato nella prima età adolescenziale, ovvero tutta la scena pop punk californiana.Se Dovessi scegliere al momento un artista con cui collaborare probabilmente direi Rose Villain, sono del parere che sia una delle artiste più forti e versatili nel panorama attuale.
4. Oggi fare musica per un emergente è diventato sempre più difficile, considerate le dinamiche legate al mondo dello streaming e del digitale, come vivete voi musicisti tutto questo? Quali pensi possano essere le mosse migliori per riuscire a ritagliarsi uno spazio tra le tantissime proposte?
Penso che la cosa migliore da fare per ritagliarsi un proprio spazio sia essere se stessi e credere in ciò che si sta facendo, il tempo e la costanza penseranno al resto
5. Domanda di rito cosa dobbiamo aspettarci da FEBBRE in futuro ?
Sicuramente quest’estate mi potrete trovare in giro per i live, ed in generale per tutto quest’anno abbiamo intenzione di pubblicare tanta musica.
Aigì è uno che ormai abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare nel corso degli ultimi anni, grazie ad una scorta niente male di pubblicazioni che hanno dato prova di un’ottima capacità di scrittura e di una dimensione autorale forte e capace di farsi apprezzare, brano dopo brano.
L’identità del progetto è tale da non sfumare nei frequenti cambi di “linguaggio” ai quali il cantautore di origine calabrese ha sottoposto la sua musica: pur rimanendo ancorato ad una tradizione cantautorale forte e definita, Antonio ha sperimentato il contatto con il mainstream, con l’elettronica e il synth-pop senza mai perdere in definizione poetica ed artistica.
Dopotutto, Antonio non è uno che “viene dal niente”, anzi: di gavetta l’artista ne ha fatta eccome, raccogliendo consensi lungo tutto lo stivale e frequentando i salotti giusti della canzone d’autore, dal CET di Mogol alle finalissime di Premio Lunezia; traguardi, questi, capaci di certificare la qualità di una ricerca fatta di applicazione e studio, nella direzione di una forma nuova (“esistenzial-pop”, come la definisce Aigì) che affondi le radici nella storia della canzone ma provi a guardare al futuro.
Basti pensare, in tal senso, all’ultima pubblicazione dell’artista, “Nuvole”, brano che fin da subito mostra una certa fascinazione per il mondo dell’urban e del nu-soul senza allo stesso tempo rinunciare ad una ricerca di contenuto che intelaia la riflessione su sé stessi con la tematica della canzone d’amore: c’è l’idea che il contatto con l’altro finisca con il definire i limiti e le dimensioni dell’individuo, in una ricerca continua del “sé” che passa soprattutto dall’esperienza con l’esterno.
Insomma, un filone pop che cerca di riflettere sull’inesauribile segreto dell’esistenza senza mai perdere d’occhio l’efficacia melodica e la resa immediata della canzone. A questo punto, non resta che attendere un disco d’esordio che, ne siamo sicuri, ci farà divertire (ma anche riflettere).
MITRA” è il debut single del progetto “lamante”, un brano che affronta il tema del piacere femminile e che vuole capovolgere il paradigma che vede la donna come oggetto di desiderio sessuale, emancipando il il desiderio delle donne che di solito viene considerato e accettato con riserva e bigottismo.
Il brano parte dalle esperienze che hanno portato l’artista a non sentirsi più vittima, agli occhi degli altri, della propria femminilità e ad accettare se stessa e il proprio corpo. Mitra è stata prodotta da Francesco Cianciola, e il sound è un mix di influenze musicali hip-pop, rap e trap.
Abbiamo fatto qualche domanda a Lamante:
1. Ciao benvenuta su Perindiepoi, ci racconti un po del tuo progetto musicale e di come è nato? Il mio progetto musicale così come il mio nome d’arte si chiama “lamante” e prende proprio il nome dalla mantide (infatti “la mante” in francese vuol dire proprio mantide). Perché la mantide? Il concept del mio progetto si ispira all’atteggiamento che ha la femmina della mantide durante l’accoppiamento, ovvero quello di mangiare il suo lui. Ci tengo molto a questa metafora nel concept poiché ritengo possa simboleggiare la forza della donna che non è e non deve essere più vista come vittima bensì guerriera, una donna forte che non si fa mettere più i piedi in testa da nessuno e che reagisce sempre come tutte le persone più deboli devono reagire a chi cerca di schiacciarle.
2. Il tuo primo brano “Mitra”, vuole abbattere alcuni stereotipi legati alla figura femminile, come mai questa scelta? Pensi che oggi sia ancora più difficile per una donna prendersi il proprio spazio? Come spiegato prima voglio riportare l’immagine della donna forte e guerriera usando il concetto della mantide, come nella prima frase del ritornello di “Mitra”, e in più mi sono soffermata sull’aspetto sessuale per evidenziare che la donna deve essere libera nella propria sessualità senza ipocrisia e non deve permettere all’uomo stereotipo di farla etichettare solo come oggetto sessuale. Non penso che oggi sia più difficile per una donna prendersi il proprio spazio se la donna è guerriera, nonostante credo che ci siano ancora dei pregiudizi sulle donne nascosti da un falso perbenismo quando si parla della donna e della sua emancipazione.
3. Il sound del tuo brano mescola rnb, pop e urban, quali sono state le tue principali influenze musicali? Cosa ne pensi dell’attuale scena musicale? Per quanto ascoltando “Mitra” si può pensare che le mie influenze musicali vadano in direzione urban, pop, ecc… devo confessare che il mio bagaglio musicale ha molteplici sfaccettature che spaziano dal soul al jazz, fin da piccola mi facevano ascoltare questa musica, fino ad arrivare e fondersi con la musica attuale pop e urban, che adoro. Mi piace come si sta evolvendo la scena musicale odierna e soprattutto come nell’attuale musica pop commerciale si riescano a trovare artisti che hanno oltre al talento, radici salde nella musica a livello di conoscenza e di studio, cito alcuni come Madame, Elodie, Rose Villain.
4. Non abbiamo potuto a fare a meno di notare che la comunicazione divisa del tuo brano è molto aggressiva nel look e nell’atteggiamento, come mai hai deciso di mostrare questo lato di te? È quello che pensi ti rappresenti maggiormente? Il look così aggressivo serve proprio perché voglio che il mio progetto e il suo messaggio arrivino come una scarica di “Mitra”. Ovviamente “lamante” che si vede, fatta di sensualità e durezza, fa parte di me, della mia corazza che negli anni mi sono creata per proteggere le cicatrici passate e che mi difende da quelle future, ma come ogni corazza nasconde una parte sensibile e delicata che viene fuori solo con chi riesce a farla uscire.
5. Domanda di rito, progetti per il futuro? Cosa dobbiamo aspettarci da Lamante nei prossimi mesi? A domanda di rito, risposta di rito, non voglio fare spoiler, c’è molto in lavorazione, “Mitra” è il primo proiettile di un caricatore pieno.
E’ da qualche tempo che gira nella nostra redazione il nome di Maelstrom, artista piemontese che ha pubblicato già diversi singoli (la maggior parte con l’etichetta spezzina Revubs Dischi, realtà discografica che seguiamo ormai da tempo) e che oggi tira fuori dal cilindro un altro brano utile ad accompagnarlo verso la pubblicazione di un disco d’esordio che farà parlare di lui, e di questo ne siamo piuttosto sicuri.
Sì, perché Maelstrom non fa mistero di essere cresciuto con la musica d’autore, e per chi avesse dei dubbi su quali possano essere gli effetti positivi del cantautorato sulle nuove generazioni, beh, ascoltatevi “Ombra” e provate a raffrontarla con quelli che sono i brani acclamati (da Sanremo alle playlist Spotify) della Gen Z e della Gen X: vi renderete conto che, oltre la superficie patinata e anche un po’ anonima di quella gioventù mercificata che il sistema discografico prova a venderci tutti i venerdì si nasconde (o meglio, sgomita per farsi notare) una pletora agguerrita di autori e autrice con gli attributi, e tra questi non possiamo di certo non annoverare Maelstrom.
Perché il cantautore di scuola Revubs sa fare il suo, eccome: penna delicata e allo stesso tempo tagliante, Maelstrom fonde una narrazione fortemente personale con un afflato che diventa collettivo, di tutti; dentro le sue canzoni, e su tutte forse proprio “Ombra”, potreste trovare l’essenza di una generazione che non smette di cercare sé stessa, con la curiosità e la disperazione del pioniere, dell’eterno esule.
Il sound, certo, guarda con interesse al pop ma non si limita ad emulare le dinamiche da hit: il ritornello è effettivamente radiofonico, ma senza la pretesa di esserlo, capace di mantenere l’autenticità della “confessione a cuore aperto” che trasuda da tutto il brano. E non è cosa da tutti i giorni, non avvertire quella classica puzza di plastica che tante canzoni emanano sin dal primo play.
Insomma, fate come noi e recuperatevi Maelstrom, se ancora non lo conoscete. Perché manca davvero poco al momento in cui potreste pentirvi di non averlo scoperto prima: sembra esserci un disco in arrivo…
Lazzaro è uno che, ormai, dovresti conoscere bene – almeno, se siete rimasti collegati, negli ultimi mesi, con la musica che vale: sì, perché nel giro di poche settimane il talento toscano è riuscito a farsi strada nel mondo arzigogolato e confusionario della discografia nazionale con un disco dalle sfumature complesse, sospese tra il post-rock e un’idea di elettronica che cerca costantemente la propria identità autorale.
La scrittura è quella dei cantautori, ma l’approccio alla produzione è quasi maniacalmente devoto ad un’idea di linguaggio che si avvicina alla performance, all’art-rock: una discesa negli Inferi (andata e ritorno, ascoltate il disco e capirete) che ammicca al glam senza contemporaneamente perdere d’essenza.
Insomma, un lavoro che meritava certamente un doppio (triplo!) ascolto e una chiacchierata a tu per tu con Lazzaro, per parlare di lui, del suo omonimo disco d’esordio e del futuro possibile di una Canzone sempre più in carenza di risorse e nuovi stimoli.
Benvenuto su Perindiepoi, Lazzaro. Abbiamo seguito il percorso dei tuoi singoli e ci aspettavamo un ottimo disco di debutto: siamo ancora più felici, quindi, di poterti fare oggi qualche domanda su “Lazzaro”. Per prima cosa, come stai e come stai vivendo questo momento?
Ciao e grazie per l’invito! Avevo già sperimentato che sensazione si provasse con l’uscita dei primi due singoli, ma con il disco è tutto un altro discorso. Si parla di un primo disco, che ha occupato gli ultimi due anni ed è costato tanto lavoro: è un bel sospiro di sollievo vederlo finalmente fuori.
Non è stato un percorso semplice, immaginiamo dalla portata dei brani e dal lavoro che c’è stato dietro, quello che ha portato alla pubblicazione del disco. Si parla sempre dei momenti belli, ma anche i momenti brutti diventano essenziali nella crescita dell’artista: quali sono gli ostacoli che pensi essere stati più gravosi, nel tuo percorso da indipendente?
La musica indipendente è viva e ha voglia di fare, ma come ogni realtà indipendente ha i suoi limiti. Io mi sento abbastanza fortunato perché, pur non avendo un background da musicista, ho trovato subito piccole realtà di zona che mi hanno aiutato molto fin da subito. Ovviamente il problema principale è il vil danaro, che può essere usato in cambio di beni e servizi (migliori).
La collaborazione con Nicola Baronti è certamente risultata centrale nella resa di un disco dal forte piglio elettronico. Come vi siete conosciuti, come è nato il rapporto fra voi?
Ci siamo conosciuti in studio mentre stava lavorando al disco di Elemento Umano, Via Casabella 11. Era la prima volta che entravo in uno studio professionale: tutto fighissimo. Poi a cena parlammo del mio disco e fissammo una giornata di ascolti per conoscersi. Da lì iniziammo a lavorare alle pre-produzioni che avevo fatto in soffitta, fissando prima i punti chiave dei brani per poi passare all’arrangiamento, le incisioni e infine la produzione. Questi due anni sono stati anche una scuola per me, ho imparato parecchio guardandolo lavorare. Insomma, una bella storia.
Nove tracce che appaiono come fiori che si appoggiano sulla superficie di una pozzanghera, contaminando la propria purezza con una certa dose di “noise” esistenziale: c’è una visione esistenziale in “Lazzaro” che è impossibile non notare. Ma insomma, una “resurrezione”, dalla distopia del “vivere quotidiano”, esiste? C’è una via di fuga? Nel disco parli spesso di “prospettive”.
Io non credo nelle storie eccezionali, sebbene porti il nome di una di queste. Con questo disco ho cercato di evitarlo a mio modo, attraverso un mio immaginario, ma è anche vero che i brani sono nati e stati scritti nel quotidiano: a lavoro, in macchina, a letto. È un cane che si morde la coda. Visto che evidentemente non si può sfuggire al quotidiano, l’unico trucco che abbiamo è lavorare di prospettiva.
In mezzo a tante cose che finiscono, qualcuna sembra resistere. È solo moda, ciò che resta, o c’è di più? Che spazio trova l’amore, in “Lazzaro”?
Lazzaro ama amare e negli ultimi anni ha imparato anche ad amarsi di più. Nel disco in realtà, per quanto intriso di malessere, c’è spazio anche per l’amore. “Pulviscolo” è la classica storia che finisce (la canzone dell’amore felice l’ho scritta in seguito), ma c’è amore anche in “Bellissima”, amore materno. Non per ultimo Lazzaro ama la vita, e questo si dovrebbe intuire un po’ in tutti i brani, in alcuni meglio che in altri, ma soprattutto dal nome, che vorrebbe essere già una dichiarazione d’intenti.
Ci sono dei brani nel disco che sembrano davvero cinematici, quasi avvolti in una nebbia che non li abbandona mai, quasi in uno scenario post-apocalittico. Che cos’è questa “fumo” un po’ distorto, un po’ abbacinante che lega tutte le tracce di “Lazzaro”?
È uno dei punti in comune che ho trovato con Nicola Baronti, ossia la passione per il cinema. Io stesso quando scrivo cerco di tirare fuori quante più immagini utili a quello che è il tema del brano, a volte sono le immagini stesse a suggerire il tema. L’esempio lampante è “Stupida”, dove sono partito con una piccola pre-produzione appena abbozzata di loop di chitarra in reverse molto arabeggiante, che già evocava un preciso scenario. Infatti la coda finale del brano è proprio un piano-sequenza dall’alto su una rivolta che si consuma.
E ora? Che succederà al progetto Lazzaro, quali sono i prossimi step del percorso?
Adesso cercherò di portare live il più possibile questo disco, vi anticipo la data del 4 Marzo all’Ottobit, dove festeggeremo per la prima volta l’uscita dell’album. C’è già un piccolo calendario di live che non vedo l’ora di annunciare.
Jampa Capolongo: un nome che, inevitabilmente, finisce con l’incollarsi nella memoria e non andarsene più via, anche se passano anni e litri d’acqua sotto i ponti.
Non so perché, ma credo di aver già avuto occasione di ascoltare Capolongo, forse proprio all’epoca del suo debutto con “Pensieri in scala“, un disco che – a seguito del ritorno del cantautore sulle scene – ho riascoltato prima di scrivere queste parole su “Un giorno lontano da tutto”, singolo che vede la luce proprio oggi e segue a ruota libera la pubblicazione di “Non vale di meno”, ripartenza con lancia in resta di Jampa data alla grande distribuzione poco prima della fine del 2022.
Ebbene, chissà perché quel disco, “Pensieri in scala“, sia finito con l’arenarsi in un passato decisamente non troppo glorioso, sperso tra le spire di un’amnesia che colpisce ormai tutto e tutti ma, evidentemente, non si accanisce su di me, che “Pensieri in scala”, per qualche motivo che devo ancora del tutto chiarire, ho l’impressione di averlo ascoltato in qualche vita precedente; forse che le cose belle, alla fine, finiscono con l’assomigliarsi e ricondursi tutte, mano nella mano, nella certezza di un possesso geloso, di un bagaglio salvavita che dovremmo poter aprire ogni volta che ci si piazza davanti qualcosa di davvero brutto, di davvero insopportabile, per ricordarci che profilo abbia, invece, la “bellezza”?
Non lo so, ma so che Jampa è uno che ha la stoffa, che avrebbe meritato di più con quel disco d’esordio e che mi auguro possa raccogliere, seppur in differita, tanti meriti quanti ne merita proprio con questa rinascita autorale, che in fondo rinascita non è perché ripesca esattamente da dove aveva pescato fin qui: dalle profondità della poesia, alla ricerca della “parola che suona” e di un’idea di canzone che non perda il suo afflato quasi rivelatorio.
E’ per questo che diventa davvero difficile non lasciarsi sedurre dalla morbidezza e, allo stesso tempo, dalla franca spontaneità di “Un giorno lontano da tutto”, autopsia di un momento che abbiamo vissuto migliaia di volte e che ci fa chiedere cosa sarebbe la nostra vita senza tutti questi cerchi alla testa (non di santità, ma di confusione esistenziale) e senza tutte questi ostacoli che il nostro cuore incontra quotidianamente sulla propria strada.
Un sound fresco, che richiama ai cantautori di inizio millennio ma allo stesso tempo “parla” una lingua universale, che potrebbe capire e sulla quale potrebbe riflettere sé stesso anche lo sbarbatello che si confronta per la prima volta con l’amore.
Perché, diciamocelo, quando amiamo per davvero siamo tutti adolescenti sbarbatelli.
Scelta certamente coraggiosa quella di Federico Cacciatori, che decide di affidare il suo nuovo disco ad una piattaforma certamente inaspettata rispetto a quelle più convenzionali: “La mia visione del mondo” ha visto la luce venerdì scorso, ma solo su OnlyFans (lo puoi ascoltare qui), sito conosciuto per i suoi contenuti generalisti e vicini ad ambienti ben diversi da quello musicale.
Eppure, Federico ha deciso di dedicarsi a nuove strade, partendo in realtà da una piattaforma che sembra essere fatta apposta per “fidelizzare” il pubblico, restituendo valore alla proposta e allo stesso tempo preservandone la qualità; sì, perché il coraggio di Cacciatori ha potuto certamente avvalersi anche della consapevolezza che oggi più che mai sia necessario, come leggiamo nelle sue note, “andare a cercare la musica che non ci aspettiamo proprio laddove non ci aspettiamo di trovarla”, magari forzando qualche dinamica che oggi sembra irrinunciabile per ogni emergente – come, ad esempio, affidarsi ai rituali sistemi di distribuzione.
Un elemento di rottura, questo, che va non solo nella direzione della “restituzione di dignità” ad un prodotto musicale che merita di essere “valorizzato”, dando al lavoro dell’artista un valore economico stabilito dall’artista stesso; ma anche una scelta che permette alla qualità della musica di rimanere “intatta”, sfuggendo alle dinamiche di compressione che Spotify e altre piattaforme impongono agli artisti.
Il disco, poi, presenta peculiarità musicali che rappresentano, allo stesso tempo, una continuità e un distacco rispetto al passato discografico di Federico: il compositore, infatti, ha esplorato anche i terreni del “pop” non solo in modo strumentale, bensì come autore di brani contenuti all’interno del disco e cantati da musicisti scelti da Cacciatori; “La mia visone del mondo”, in tal senso, sembra muoversi sulla via dell’espressione di un certo tipo di valori e “punti fermi” che Federico aveva già messo in luce con l’omonimo singolo.
Un lavoro compatto che colpisce certamente per originalità, e questa volta non solo “musicale” ma anche, se così possiamo dire, “discografica”.
Devo dire che ho provato fin da subito una certa simpatia per Lazzaro, artista dal nome certamente particolare ma dalla musica ancor più “brillante”: a differenza del personaggio miracoloso, quella di Lazzaro pare una resurrezione avvenuta non per miracolo, ma attraverso un percorso di “auto-consapevolezza” che sembra averlo portato, oggi, a nuove idee, nuove forme.
Forse è da queste rinnovate consapevolezze che deriva la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di “sacerdotale”, di mistico quando comincia “Fears”, con quegli avvolgenti sintetizzatori che lasciano lievitare il brano con una certa forza centrifuga: il testo prende forma, dopotutto, proprio negli spazi che l’orchestrazione lascia al cantato, libero di inalberarsi verso picchi e profondità estreme.
Una cosa simile, in effetti, accade anche in “Oro”, il secondo singolo del tenebroso toscano: se in “Fears” il focus s’incentrava sul concetto di paura (e delle sue relative estensioni), in “Oro” la penna di Lazzaro cuce e taglia il significato di “apparenza”, con una stoccata ben precisa e diretta ad una contemporaneità che, oggi più che mai, ha un disperato bisogno di ritrovarsi proprio al di fuori dell’alone mistificatorio (e affatto mistico) dell’apparenza.
La scrittura di Lazzaro affascina, è inutile negarlo: sento il richiamo di quella epopea indipendente che in Italia ha trovato i suoi massimi esponenti nei CCCP, ma allo stesso tempo c’è qualcosa nelle scelte “sonore” che richiama agli ambienti del club europeo, con un certo gusto quasi berlinese nella scelta delle atmosfere dei momenti più “trance”.
Vediamo cosa ci riserverà il futuro. Per ora, il presente è vivo e vegeto, si è alzato e cammina.
Parole, parole, parole: parole che rimbalzano contro i finestrini di macchine lanciate a tutta velocità verso il fraintendimento, mentre accanto a noi sfilano cortei di significati e di interpretazioni che si azzuffano per farsi strada nella Storia, provando a lasciare un segno. Parole giuste, parole sbagliate; parole che diventano mattoni per costruire case, ma anche per tirare su muri; parole che sono bombe, pronte a fare la guerra o a ritornare al mittente dopo essere state lanciate con troppa superficialità: parole intelligenti, parole che sembrano tali solo a chi le pronuncia, mentre chi le ascolta cerca le parole giuste per risanare lo squarcio. Parole che demoliscono, parole che riparano. Spesso, parole che sembrano altre parole, che pesano una tonnellata per alcuni mentre per altri diventano palloncini a cui aggrapparsi per scomparire da qui. Parole che sono briciole seminate lungo il percorso da bocche sempre pronte a parlare, ma poche volte capaci di mordersi la lingua: se provi a raccoglierle, come un Pollicino curioso, forse potresti addirittura risalire all’origine della Voce, e scoprire che tutto è suono, e che le parole altro non sono che corpi risonanti nell’oscurità del senso.
Parola, voce, musica: matrioske che si appartengono, e che restituiscono corpo a ciò che sembra essere solo suono.
Ogni mese, tre parole diverse per dare voce e corpo alla scena che conta, raccogliendo le migliori uscite del mese in una tavola rotonda ad alto quoziente di qualità: flussi di coscienza che diventano occasioni di scoperta, e strumenti utili a restituire un senso a corpi lessicali che, oggi più che mai, paiono scatole vuote.
GIONATA
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Ciao, come va? Penso che queste tre parole siano al tempo stesso vicine quanto lontane.
Il successo è legato al raggiungimento di un obiettivo e non per forza alla fama. Penso che una persona abbia successo quando si pone degli obiettivi che poi raggiunge, anche semplicemente l’idea di smettere di fumare e poi riuscirci fa di una persona un individuo di successo. Spesso invece viene associato alla ricchezza, alla fama. Il mio secondo disco, Congratulazioni, in questo senso assume il ruolo di sincere congratulazioni: volevo pubblicare un disco e l’ho fatto e, per quanto mi riguarda, ho già avuto successo. Il mio prossimo obiettivo è fare della musica un lavoro e non importa avere tre milioni di ascoltatori o suonare davanti a centomila persone. Se e quando riuscirò a lavorare solo di musica e potermi pagare la vita senza fare altri lavori, allora avrò ottenuto ancora più successo.
È una questione soggettiva.
Così come è soggettivo il merito: dire che “qualcuno si merita qualcosa” vuol dire avere dei confini (culturali) che definiscono determinati standard che ci fanno dire chi è meritevole e chi no. Sempre relativo alla musica, verrebbe da dire che chi ha studiato uno strumento per dieci anni ha più merito rispetto a un cantante stonato che usa l’autotune e canta sopra delle basi realizzate con dei loop e non ha la minima conoscenza della musica. Ma è qui che nasce l’errore: se ricalcoliamo tutto e ci dimentichiamo delle “regole”, allora non esiste il merito, semplicemente esistono persone che ottengono cose e altre che non le ottengono, seguendo leggi che non conosciamo e che possiamo mettere dentro la scatola delle casualità (e del soldo). Quindi dico Congratulazioni a tutti, siamo tutti bravi e nessuno lo è veramente, tutto ha significato e proprio per questo niente lo ha.
L’ambizione è, tra le tre parole proposte, quella che preferisco. Per il semplice fatto che è legata alla personalità ed è slegata da costrutti culturali. Non è giusta o sbagliata, è soltanto una volontà: la volontà è un’altra parola che avrei inserito. Può essere legata al miglioramento personale (vivere in pace con sé stessi e con il mondo) o al raggiungimento di un obiettivo (e qui si lega al successo), ma rimane un aspetto necessario perché senza ambizione siamo solo pezzi di carne vuoti privi di sogni e con niente in cui credere. L’ambizione è necessaria e non dobbiamo esserne schiavi o temerla, dovremmo solo usarla per farci forza e proseguire la nostra strada, fregandocene di tutto.
Congratulazioni a chi ci riesce.
LAZZARO
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Parto dall’ambizione, perché credo definisca poi cosa intendiamo per successo. È importante avere punti di riferimento alti (altissimi) ai quali mirare, ma sempre cercando di riconoscere i propri limiti. Credo che questo sia la base per una vita a misura d’uomo e, per quanto mi ostini ad essere un’idealista, a volte ho trovato sano anche riformularmi, proprio in quei momenti dove l’ambizione e il sogno erano bellissime fantasie, alimentate da un mondo che insegue una crescita continua, incoscientemente proiettato verso un futuro addolcito da un insensato ottimismo. Insomma, non credo esista IL successo quanto I successi, a seconda delle ambizioni e dei limiti di ciascuno. Sul merito faccio un po’ difficoltà a dire la mia, si rischia di essere antipatici e quindi preferisco rubare le parole di altri, in questo caso di Niccolò Fabi: “Facciamo finta che chi fa successo se lo merita”.
SMOKIN VELVET
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Il successo è un qualcosa che, per l’epoca in cui viviamo, è quasi mitizzato. Siamo costantemente bombardati da personaggi che ostentano un’immagine di successo, la maggior parte delle volte costruita ad hoc da chi di dovere. Sembra quasi che sia obbligatorio mostrarsi in questo modo, specie in un mondo di influencer e simili.
Noi personalmente il successo non lo perseguiamo direttamente con le nostre intenzioni artistiche, la cosa che ci preme è quella creare arte che possa restare nella testa e nel cuore delle persone, che trasmetta un messaggio che ognuno possa recepire in modo diverso a seconda delle sue esperienze e del suo vissuto. Se l’impegno e il tempo lo concederà, il successo verrà da solo.
I “meriti”, concettualmente, sono soggettivi. Certo, possiamo dire che nei nostri percorsi alcune persone, opere, album, film con cui ci siamo interfacciati abbiano avuto più “meriti” di altri nella nostra formazione, ma ciò non cambia che tutto quello che ci accade, che viviamo e creiamo, accade come conseguenza di azioni nostre, delle persone e dei fatti che ci accadono intorno. La cosa affascinante è quando i fatti accaduti, che siano romanzati o meno, vengono raccontati, e la bellezza del momento in cui qualcuno si ritrova in quello che hai scritto o composto è qualcosa di unico.
L’ambizione è fondamentale per qualsiasi cosa si voglia fare nella vita, sicuramente riuscire a vivere con la musica è una delle imprese più difficili di questi tempi in un paese come l’Italia: tocca costantemente fare compromessi, poter lavorare alla cosa a cui tieni di più può accadere quando torni a casa dopo una giornata di lavoro e le energie sono poche, oppure quando hai a disposizione giornate intere in cui potresti svaccarti completamente e invece ti metti a scrivere musica, ma in entrambi i casi, lo fai sempre con gioia e la voglia di poterti spingere sempre più in là, per superare ogni volta i propri limiti.
BLUNDA
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Il successo è qualcosa a cui tutti, in fondo, aspirano.
La cosa in cui tutti incappiamo – però – è che successo voglia dire “grandi numeri”, quando in realtà credo che ogni piccola cosa vada vissuta come un successo, soprattutto in questo lavoro in cui si lavora con le emozioni.
Anche solo poter arrivare ad una persona è un enorme successo, poter in qualche modo condividere un’emozione.
Purtroppo a volte il successo non è conseguente al merito, in qualsiasi ambito. Ci sono tanti artisti là fuori capaci e brillanti che faticano ad emergere in questo mondo troppo pieno di offerta musicale. Però credo anche che alla lunga i meriti vengano sempre riconosciuti, perché la musica appartiene alle persone e alla sincerità con cui si trasmette.
Ciò che non deve mancare mai, in qualsiasi campo della vita, è l’ambizione: il bello di questa nostra esistenza è di non avere realmente limiti, che tutto può essere possibile.
Allora io dico di continuare a sognare e perseverare, volare in alto e mai aver paura del fallimento, perché anche solo mettersi in gioco è il più grande dono e successo che si possa conseguire.
CINUS
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Per fare un collegamento logico partirei dall’ambizione, il desiderio di fare qualcosa o portare a termine un progetto. Questo desiderio si collega al merito, al lavoro, alla fatica, al talento, alla determinazione per essere riusciti ad arrivare al proprio oggetto del desiderio. Infine il successo, che senza ingigantirlo di significato, possiamo descriverlo come la buona riuscita di un lavoro che si è fatto e portato a conclusione, indipendentemente dal riscontro, che può essere di grandi o piccole dimensioni. Il successo ha la peculiarità di poter essere un fatto del tutto intimo, personale, il mio successo lo posso raggiungere con i piccoli obiettivi che mi pongo ogni giorno e che riesco a portare a termine, oppure con grandi progetti lavorativi, con l’apprezzamento altrui, che dire, ci sono tanti significati che la parola “successo” può racchiudere. Ma di queste tre la mia preferita è ambizione. Perché il merito lo ottieni sì, con l’impegno, ma anche con l’ambizione. Io ho un’ambizione, ed è quella che mi porta a scrivere musica e a cantare su un palcoscenico, che io me lo meriti dipende dal mio impegno. L’essere qua a rispondere a queste tre parole, questo per me è il successo.
BEATRICE PUCCI
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
Mi viene in mente che il successo non è un percorso lineare e che avere la giusta ambizione in una realtà musicale non semplice è fondamentale per riuscire a crearsi il proprio percorso. Successo poi non è sinonimo di felicità, può essere una soddisfazione momentanea su cui non si può basare tutto.
NUBE
Tutto quello che ti viene in mente se ti diciamo “successo, merito, ambizione”.
L’ambizione è fondamentale per riuscire ad arrivare al successo, che però non è, molte volte, relativo al merito ma a dinamiche ben più contorte.
Chi segue i miei resoconti mensili, sa bene che per Beatrice Pucci ho un debole atavico, che affonda le radici nel primo ascolto che feci di “Figli”, il suo singolo d’esordio pubblicato a maggio scorso e seguito, a distanza di qualche settimana, dalla pubblicazione di “Le colline dell’argento“, il suo disco di debutto pubblicato (e realizzato, cosa da sottolineare) da totale indipendente: un lavoro denso, pieno di spunti di riflessione musicale ed esistenziale, fatto di piccole cose che s’incastrano alla perfezione nella resa di un album che faceva del “non finito”, del “grezzo adamantino” il proprio punto di rifrazione e forza.
Ovvio, dunque, che oggi, all’uscita di “Nero”, il suo primo singolo post-disco, il cuore mi abbia sussultato in petto con la veemenza di chi sta rintanato da un po’ nell’ombra della gabbia toracica, in attesa di un refolo di luce capace di restituire nuova forza ed emozione al muscolo cardiaco; e appena ho premuto “play”, ogni nuvola si è trasformata in burrasca, sciogliendo in pianto quella coltre grigia che, da qualche tempo a questa parte, affossa le esistenze di tutti. Abbiamo bisogno del buio, per brillare: e questo, Beatrice, sembra volerlo dire con tutta la forza che ha, e allo stesso tempo con la serena accettazione di chi ha svelato un arcano, e sa che il mistero non è altro che un gioco d’ombre, in attesa di essere illuminato.
“Nero” ha la potenza catartica di qualcosa che proviene da un altrove, da uno spazio diverso rispetto a quello della quotidianità: una sorta di crepa, di fessura dalla quale – come direbbe Leonard Cohen – la luce filtra e illumina le fattezze di un giardino che è segreto solo per chi non sa cercare davvero; e allora, seguendo le linee arboree di chitarre che dettano il passo del cammino, si finisce col perdersi e volersi perdere tra gli odori di muschio e selva di quell’intricato bosco di emozioni che la vita sa offrire, a chi supera la paura del buio.
Ecco, quella paura, che oggi pare essere la grande fobia di questo nostro tempo sempre impegnato a brillare per non affrontare il timore dell’oscurità, è il farmaco che Beatrice sembra aver individuato per auto-debellare la propria infelicità: accettare che il buio altro non sia che il confine della luce, e viceversa, e che ogni gioia necessita del dolore per capire l’estensione di sé stessa, per sapere di esistere e di essere vera.
Un bel lavoro, che fa innamorare ancora di più chi già da tempo ha giurato amore alla musica di Beatrice.