Categorie
Recensione

Introspezione e vibrazioni urbane: “Il cuore un po’ più grande” è il nuovo EP di Leo Fulcro

“Il cuore un po’ più grande” è un EP che si presenta come un viaggio emotivo e musicale attraverso la vita quotidiana, l’identità urbana e l’evoluzione personale di Leo Fulcro. Il lavoro si compone di cinque tracce che mescolano consapevolmente rap, soul e pop, esprimendo al meglio la versatilità, la profondità artistica e la capacità di raccontare emozioni con un linguaggio diretto e autentico da parte del giovane rapper adottato da Roma.

L’EP si apre con “La Musica”, che vede la collaborazione con l’artista costaricano-americano CES: il singolo di lancio è allo stesso tempo una dichiarazione d’amore per la musica e una riflessione sul potere terapeutico di questo linguaggio universale. La base dinamica e coinvolgente accompagna un testo che fonde nostalgia e rivincita, mentre Leo Fulcro rivive i suoi sogni adolescenziali e il suo legame profondo con la musica, diventata un grande amore che lo ha accompagnato nei momenti più difficili. È un brano che parla di appartenenza, di libertà di espressione e di crescita personale, capace di toccare le corde più intime dell’ascoltatore.

Segue “Lazy” che ci porta una ventata di leggerezza grazie ad un groove lento tramite cui Leo Fulcro esplora il tema della pigrizia in modo tutt’altro che banale: più che un momento di stallo, “Lazy” diventa un invito a rallentare, a prendersi una pausa dalla frenesia quotidiana e a riflettere in modo ironico e disincantato sulle piccole cose della vita. La produzione di Doppiobasso e la chitarra di Giorgio Cesaroni costruiscono una base che si sviluppa lentamente, creando un’atmosfera intima e laid back che ben si sposa con il testo giocoso ma ricco di sottotesti.

Il viaggio prosegue con “Pollo e Patate”, forse il brano più personale dell’EP, che racconta un momento di pura creatività nata dalla casualità di una serata tra amici. Leo Fulcro stesso racconta come il pezzo sia emerso quasi per caso durante una cena, un incontro spontaneo tra amici che si trasforma in musica. La produzione funky si intreccia perfettamente con la liricità del testo, dove la semplicità quotidiana diventa metafora di una ricerca interiore che oscilla tra luce e ombra. È un brano che esplora le dicotomie della vita con un tono giocoso e riflessivo, capace di entrare in sintonia con chiunque abbia mai cercato un senso nelle cose più ordinarie.

L’ascolto dell’EP prosegue con “Porta Maggiore”, canzone evocativa che permette a Leo Fulcro di dipingere un quadro vivido di Roma, esplorando il tema della marginalità e trovando un equilibrio tra il legame con le proprie radici e la tensione verso una nuova dimensione personale. Il groove e le atmosfere urbane donano al brano un carattere internazionale e poliedrico, che accompagna le parole di Leo Fulcro, intrise di riflessioni sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dove la città diventa il teatro di un’eterna ricerca di sé.

Il brano “Parketto”, che chiude l’EP, offre un momento di purissima introspezione: la traccia è un inno alla bellezza nascosta nelle piccole cose, quelle che spesso passano inosservate nella frenesia della vita quotidiana. La produzione minimalista lascia ampio respiro alle voci, consentendo a Leo Fulcro di raccontare una storia personale che ora si fa universale. “Parketto” incarna lo spirito di chi sa trovare senso e felicità anche nei momenti più semplici e ordinari, con una ritmica che si mescola perfettamente con il flusso poetico delle parole.

In conclusione, “Il cuore un po’ più grande” è un un mosaico sonoro che esplora le contraddizioni e le sfumature della vita quotidiana. Abile nello spaziare tra vari generi e influenze senza mai perdere la propria identità, Leo Fulcro fa del suo nuovo EP un lavoro che, con semplicità e profondità, parla a chiunque cerchi una connessione genuina con la musica e con se stesso.

Contatti
Spotify
Instagram

Fonte: RC Waves

Categorie
Pop

Vi raccontiamo “Amor Vincit Omnia” dei Miqrà

Chitarre, poesia, pensieri, parole, flussi di coscienza, groove, queste alcune delle parole che descrivono i Miqrà nella loro essenza più intima.

Il disco della band siciliana di cui vi parleremo s’intitola “Amor Vincit Omnia” ed il suo linguaggio arriva diritto al cuore, come una freccia che non fa male. Il disco però, non è un semplice tripudio di belle parole “sole cuore amore”, i Miqrà infatti sanno usare molto bene le distorsioni mettendo in bella mostra anche i muscoli, le ferite e le malinconie più profonde che possono trasformatisi in veri e propri manifesti.

A partire dal singolo “La catastrofe in me” possiamo sentire come la band non si sia mai fermata dall’ultimo disco notando una certa evoluzione (basti pensare agli archi inseriti nel brano). Una crescita che ha potenziato il sound della band siciliana che saltella tra l’indie ed il mainstream mantenendo sempre inalterato il proprio spirito rock’n’love.

In estrema sintesi, il disco dei Miqrà è un disco per esteti della parola, per ricercatori assetati di poesia e viaggiatori incanti alla scoperta di musica indipendente non scontata. “Amor Vincit Omnia” è un disco che seppur complesso e contorto a tratti può dare grandi soddisfazioni alla band sia in termini di pubblico che di qualità degli ascolti, attirando sempre di più in audience di persone che ricercano ancora la bellezza nella musica. Ad maiora.

Categorie
Pop

Abbiamo ascoltato “Amore vincit Omnia” dei Miqrà

In una qualsiasi giornata primaverile arriva il nuovo disco dei Miqrà come a ricordarci che anche l’inverno più freddo e problematico viene spazzato via da una sferzata di bellezza.

“Amor vincit Omnia” ci ricorda proprio questo, che alla fine, l’amore vince su tutto, che la bellezza viene a galla e che bisogna mostrarla a tutti i costi.

L’album anticipato dal singolo “La Catastrofe in me” ci mostra una band rinnovata, matura, caparbia, con archi ed orchestra a supporto, come a dire che ciò che si è ascoltato prima in “Ultimo piano senza ascensore” altro non era che una serie di reminiscenze “adolescenziali”. Bellissima la cover di Battiato “Stranizza d’amuri” che ci conduce in una dimensione del cantautore catanese moderna, fresca e piena di forza.

Tra i brani che più ci hanno colpito troviamo “Ossa” e “Calicanto”, quest’ultimo poetica e visionaria come tra l’altro sono anche i Miqrà. In conclusione i Miqrà hanno sfornato un disco che attesta lo stato di grazia e maturità della band, che davanti a sè non avrà altro che un futuro splendente, dove con molta probabilità avremo qualche tentativo di sperimentazione. Un ottimo disco che custodiremo con avidità.

Categorie
Elettronica Indie Intervista Pop

“584” di Cranìa: un viaggio celestiale nell’elettronica pop

Il 19 gennaio 2024 è uscito il primo album di Cranía, “584”, via Costello’s Records con distribuzione The Orchard.
Il titolo del disco si riferisce al numero di giorni che compie Venere per riportarsi in congiunzione con il sole. Le nove tracce, a loro volta, rappresentano l’orbita del disco: si susseguono creando un’esperienza d’ascolto che riverbera con la stessa intensità delle onde del mare che rispondono ai moti celesti della Luna.
L’approccio di Cranía alla scrittura è riflessivo e metodico, quasi matematico: il lavoro svolto dietro il disco, sia in fase di produzione che di composizione, si distingue per raffinatezza e qualità, senza mai sacrificare l’emozione e l’essenza coinvolgente di un ascolto spontaneo. Questa sinergia tra precisione e passione dà vita a un lavoro di alto livello, di sapore internazionale.
Ascoltare “584” di Cranía è una passeggiata sul suono lunare, dove le melodie elettroniche e i testi evocativi trasportano l’ascoltatore in un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, attraverso paesaggi sonori che rispecchiano la maestosità e la quiete degli spazi siderali.

Ad: Facciocosepunto
Ph: Stella Giulia Casarin

Per l’occasione abbiamo fatto due chiacchiere con la cantautrice lombarda per approfondire la sua arte.

1) Quali differenze ci sono state nella lavorazione (dall’ideazione dei brani alla produzione dei brani in studio) del primo EP e di questo primo disco?
Quello sul primo disco è stato un lavoro più di cesellamento a partire dalla creazione stessa dei brani, che ho rivisto a più riprese. Sono partita da canzoni che già avevo nel cassetto, ma che per svariati motivi non riuscivo a completare, forse non erano ancora mature, fino a lasciarmi andare alle nuove. Per quanto riguarda le produzioni, è andata nello stesso modo: c’è stato un lavoro fitto di pre-prod con Mirko Bruno, culminato in un mese di studio da Federico Carillo alla ricerca dei vestiti giusti per “584”.

2) Quali sono le tue principali influenze (o cosa ti piace ascoltare ultimamente) e con qual* artist* ti piacerebbe fare un featuring?
RY X e Luigi Tenco sono le mie principali influenze, ma ultimamente sono in fissa con il fado. In merito al featuring, mi piacerebbe farlo con… ve lo dico nella prossima intervista 🙂

3) C’è un festival o un palco in particolare in cui ti piacerebbe esibirti?
Ogni palco è importante, soprattutto per chi come me vuole proporre la propria musica. Se devo fare un nome dico il “MI AMI” perché è un festival che seguo con interesse e che ha a cuore anche i progetti emergenti.

4) Arrivi da una valle del bresciano e in un brano del precedente EP citi il tuo paese natale, ma quanto è importante oggi quel tipo di dimensione per la genesi della tua musica?
È vitale. Senza le mie radici, non sarei la musica che scrivo appunto. Inoltre, sento la necessità di ritornare alle mie origini ogniqualvolta ho il bisogno di visualizzare le montagne, il mio orizzonte.

BIO
Cranìa
 è una cantautrice che ha le montagne negli occhi. La sua voce è rotta e si fa strada scavando tra crepe di parole fragili. Ma è in superficie che trova la luce su ritmiche morbide, intrecci elettronici e melodie ariose. Una luce pronta a lasciare il segno.

Contatti
Spotify
Instagram
Facebook
YouTube

Fonte: Costello’s Records

Categorie
Indie Pop

Tra le strade di “Urbe” in cerca di noi stessi: il primo EP di Yassmine Jabrane

Urbe” come città, dimensione interiore che apre le sue porte alla contemplazione pubblica, con vista sul cuore aperto di una penna sensibile, e capace certamente di spiccare nel “grigio diluvio democratico” del nostro tempo avaro di bellezza: questo è molto di più è il primo disco di Yassmine Jabrane, canta autrice romana che dopo una lunga gavetta tira le somme del suo percorso fin qui racchiudendole in quattro canzoni dal retrogusto esterofilo.

Il disco si presenta fin da subito con una compattezza di sound che rivela 1:00 direzione artistica, volta ad esaltare la timbrica espressiva e evocativa di Yassmine: quattro canzoni che rimbalzano fin da subito da un orecchio all’altro, passando dal cuore e incastrandosi nella testa grazie a strutture pop che tuttavia non al mainstream; il tutto, ben cucito addosso all’artista dal lavoro certosino di Cesare Augusto Giorgini.

Il lavoro si presenta come una riflessione a cuore aperto sulle tematiche emotive ed esistenziali che più stanno a cuore all’autrice, che senza filtri si presenta al pubblico italiano con la precisa volontà di trasformare le debolezze in forza e in nuovi punti di partenza. Così, l’ansia può diventare un’occasione di riflessione sui freni che ci imponiamo, una relazione andata male si rivela spunto di indagine riguardo al bene che davvero riusciamo a volere a noi stessi, la nostra sete di risposte risulta la cartina tornasole della nostra paura del buio: insomma, un disco che si tiene perfettamente in equilibrio fra l’opera d’arte e il manifesto terapeutico di una generazione in cerca di nuovi centri di stabilità permanente.

Yassmine dimostra di essere uno tra i nomi nomi da tenere d’occhio per questo 2024, capace di fondere insieme linguaggi apparentemente distanti ma mai così alchemicamente uniti come in “Urbe”.

Categorie
Indie Pop

La “Silhouette” di Buonforte è quella di tutti noi

Buonforte è un artista a tutto tondo, che non conoscevamo e che non abbiamo potuto fare a meno di apprezzare fin dal primo ascolto del suo disco d’esordio “Silhouette”, un lavoro denso e ben fatto, costruito sull’equilibrio efficace che separa (e unisce) pop e canzone d’autore, senza mai concedersi cali di tensione né di eleganza.

Un’opera efficace a fungere, allo stesso tempo, da manifesto generazionale e confessione personale, aprendo uno spiraglio su un’intimità fatta di piccole cose che spalancano allo stesso tempo riflessioni sui dubbi esistenziali che ognuno di noi si pone tutti i gironi: dall’amore, al senso delle cose passando attraverso la ricerca di sé stessi. E in effetti, è proprio questo che “Silhouette”, come il titolo stesso dell’album sembra volerci dire, vuole provare a fare: ridisegnare cioè i contorni di una sensibilità profonda, e allo stesso tempo desiderosa di superficie e leggerezza.

Le canzoni del disco si rincorrono incalzando l’ascoltatore in un viaggio che passa attraverso i dubbi e le certezze di Buonforte, ammantate di una musicalità che riesce a conciliare perfettamente il desiderio di ricerca poetica dell’artista con una propensione più che evidente alla melodia e al lirismo: la profondità autorale non cede il passo ad una “popizzazione” scriteriata, piuttosto è la chiave leggera scelta da Altrove (produttore di punta della scena indipendente nazionale, che ha lavorato negli anni con artisti del calibro di cmqmartina, svegliaginevra e altri) ad enfatizzare e a rendere “di tutti” il senso di un lavoro che rischiava di incagliarsi nella sua poeticità.

Silhouette”, invece, arriva al grande pubblico con immediatezza e concretezza, come solo quelli bravi davvero sanno fare: dentro, c’è la vita di Gabriele, che forse (anzi, certamente) può assomigliare alla vita di tanti, se non di tutti.

Categorie
Indie Pop

La nuova canzone d’autore ha residenza in “Via Giardini” e vive con Chiara Effe

C’è una forma, una modalità di fare le cose che continua a conquistare chi sa ancora ascoltare con il cuore, prima ancora che con le nostre orecchie sempre più intasate da fin troppo bitume, in questa contemporaneità che fa assomigliare la scena nazionale sempre più ad una discarica di plastica e catrame discografico.

Sì, perché nonostante la narrazione collettiva di questo mercato malato di superficialità cerchi di raccontare ogni giorno l’inadeguatezza della canzone d’autore di fronte all’endemica e drogata incapacità d’ascolto del pubblico nazionale (come se, poi, la responsabilità fosse solo del pubblico, e non anche di chi spesso fa proprio questi proclami esaltati travestiti da malinconici epitaffi), la verità è che esiste una risacca resistente che non smette di cercare musica che sappia “dire” e non solo “chiacchierare”, capace di rendere più che sensata la ricerca poetica del cantautore – direi quasi salvifica, necessaria. 

E’ il caso, questo, del secondo disco di Chiara Effe, cantautrice cagliaritana con la testa tra le nuvole (nel miglior significato dell’immagine: da lassù si vede tutto in modo assai più distinto…) e il cuore ben piantato nella sua terra fatta di sacrificio e amore, dura come il sasso e indomabile come il mare; e forse sono queste le parole più adatte per raccontare un album che raccoglie 12 piccole perle che stanno sul palmo di una mano, ma finiscono col prendersi presto tutto il braccio e anche oltre, come un prurito che finisce con l’arrivare al centro del petto senza dimenticarsi di stomaco e cervello. 

Un ritorno che mette a tacere il brontolio di uno stomaco a digiuno dal 2014, anno del debutto di Chiara con “Via Aquilone”, a mappare l’inizio di un viaggio che ora si sposta poco più in là, in “Via Giardini”: la città emotiva è la stessa ma le canzoni sembrano cresciute dentro un ventre più maturo, capace di aspettare il momento giusto per dare alla luce un “figlio” tenace e purissimo come il diamante. 

C’è l’eco della musica d’autore che vale, nelle dodici canzoni di Chiara, che dopotutto è stata premiata negli ultimi anni con diversi premi intitolati ai grandi cantautori della storia musicale nazionale, quasi ad ufficializzare una staffetta che l’artista ha raccolto nel tempo condensandola nella risposta di “Via Giardini”, album sospeso tra leggerezza (che non è superficialità, come direbbe un grande scrittore) e ricerca di una profondità che in alcuni brani diventa abissale, con tinte talvolta più ironiche (“Non son buono” o “Il colore della mia città”) e altre volte più compassate e nostalgiche (“La ballata del mare” o “Via Serpentara”); c’è un manifesto poetico meraviglioso come “La danza delle parole”, e in generale l’amore trasuda da ogni traccia: un amore per le cose, per le persone, per la vita come meravigliosa occasione non da perdere, in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più fosche. 

C’è una sensazione che non si stacca dalla pelle, dopo aver fatto un giro in “Via Giardini”: esiste un posto bellissimo, in Italia, dove la musica che merita resiste ed esiste ancora. Ed è qui, in questa alcova nascosta, che sembra avere residenza Chiara Effe.

Categorie
Indie Pop

Alla scoperta degli Aftersat, lontani da terre che uccidono

Aftersat è un nome che non conoscevamo fino a qualche giorno fa, quando in redazione è atterrata (sì, perché sin da primo ascolto ci è sembrata che fosse “celeste” e allo stesso tempo fortemente “tellurica” la derivazione di “Terra c’accide”) la proposta d’ascolto del loro nuovo singolo, vero e proprio crocevia di esperienze musicali e linguaggi espressivi che trovano nella lingua napoletana il trampolino di slancio di un progetto da scoprire, e da tutelare dalle pretese “alienanti” di un mercato che sembra interessato a nascondere sempre più le radici. 

Radici che, in “Terra c’accide”, si fanno sentire eccome, facendo tremare le gambe a chi sembra non aver capito che non esiste nulla di tanto “futuristico”, oggi, come il recupero critico della tradizione, la riscoperta appunto di quelle radici che ci legano in modo indissolubile a qualcosa che ci anticipa, che viene prima di noi: gli Aftersat paiono aver raccolto la lezione della contemporaneità ed essere partiti alla ricerca di qualcosa di più ancestrale, di più originario, pur senza dimenticare di volgere un occhio al futuro, alla ricerca di nuovi linguaggi. 

“Terra c’accide” è un lamento che si fa atto di sfida a sé stessi, un pianto che non ammette disperazione ma cerca le lacrime giuste per far crescere nuova vita su questa “terra che uccide”: c’è tutto il dolore di una vita costretta alla sopravvivenza, e allo stesso tempo il fascino orgoglioso di una resistenza che diventa condizione esistenziale, quasi culturale; il dramma di un addio che vorrebbe essere un arrivederci, ma che si costringe all’abbandono per non rimanere invischiato nelle sabbie mobili di un perpetuo presente che non conosce futuro. 

C’è la questione meridionale, a suo modo, c’è la ricerca di uno stile ibrido che possa valicare i confini territoriali cavalcando un dialetto che la storia ha già conosciuto come “internazionalizzabile”: una furia genuina che sposa la tarantella con i distorsori, in un brodo primordiale in cui presente, passato e futuro sembrano convivere nella ricerca di una nuova definizione di sé, di un nuovo modo di “chiamarsi per nome”. Una scoperta che finisce con il far bene al cuore, e allo stesso tempo con l’offrire all’ascoltatore un’alternativa salvifica al terrore del release friday.

Categorie
Indie Pop

Il coraggio del pettirosso: Federico Cacciatori e la sua visione del mondo

Scelta certamente coraggiosa quella di Federico Cacciatori, che decide di affidare il suo nuovo disco ad una piattaforma certamente inaspettata rispetto a quelle più convenzionali: “La mia visione del mondo” ha visto la luce venerdì scorso, ma solo su OnlyFans (lo puoi ascoltare qui), sito conosciuto per i suoi contenuti generalisti e vicini ad ambienti ben diversi da quello musicale. 

Eppure, Federico ha deciso di dedicarsi a nuove strade, partendo in realtà da una piattaforma che sembra essere fatta apposta per “fidelizzare” il pubblico, restituendo valore alla proposta e allo stesso tempo preservandone la qualità; sì, perché il coraggio di Cacciatori ha potuto certamente avvalersi anche della consapevolezza che oggi più che mai sia necessario, come leggiamo nelle sue note, “andare a cercare la musica che non ci aspettiamo proprio laddove non ci aspettiamo di trovarla”, magari forzando qualche dinamica che oggi sembra irrinunciabile per ogni emergente – come, ad esempio, affidarsi ai rituali sistemi di distribuzione. 

Un elemento di rottura, questo, che va non solo nella direzione della “restituzione di dignità” ad un prodotto musicale che merita di essere “valorizzato”, dando al lavoro dell’artista un valore economico stabilito dall’artista stesso; ma anche una scelta che permette alla qualità della musica di rimanere “intatta”, sfuggendo alle dinamiche di compressione che Spotify e altre piattaforme impongono agli artisti.

Il disco, poi, presenta peculiarità musicali che rappresentano, allo stesso tempo, una continuità e un distacco rispetto al passato discografico di Federico: il compositore, infatti, ha esplorato anche i terreni del “pop” non solo in modo strumentale, bensì come autore di brani contenuti all’interno del disco e cantati da musicisti scelti da Cacciatori; “La mia visone del mondo”, in tal senso, sembra muoversi sulla via dell’espressione di un certo tipo di valori e “punti fermi” che Federico aveva già messo in luce con l’omonimo singolo.

Un lavoro compatto che colpisce certamente per originalità, e questa volta non solo “musicale” ma anche, se così possiamo dire, “discografica”.

Categorie
Rap

Dinamite e tritolo nelle penne degli Smokin’ Velvet

Wo, mamma mia, ma che diamine di garra sale appena premi “play” sul secondo singolo degli Smokin ‘ Velvet, duo ibrido che rotola a passo di groove sulla strada che collega Toscana e Lombardia? Inutile fermarsi a prendere fiato, quando il brano che hai davanti sembra fatto apposto per levarti l’aria – sopratutto se sei tra gli “Scarseez” che i due prendono di mira con la precisione del cecchino. 

C’è proprio una tendenza, nella scrittura degli Smokin‘, a trasformare le parole in esplosioni dinamitarde, in piccole granate artigianali che i due lanciano dalla finestra su strade piene di zombie in giacca e cravatta, o in Vans e pullover, o insomma su “deficienti” deambulanti che popolano la noia degli uffici, delle discoteche, del mercato discografico, dei salotti più o meno bene: una rabbia irrefrenabile che sale dallo stomaco e, una volta che arriva al cervello, prende la forma di una smitragliata di lemmi e vocaboli utili a sottolineare, per l’ennesima volta, la validità del concetto che “la lingua taglia più che la spada”, senza ombra di dubbio.

Gli Smokin’ avevano già dato segno di una certa predisposizione alla dinamite: i due avevano esordito qualche mese, con un progetto interamente curato da loro in prima persona (dalle basi alla realizzazione delle grafiche, in quella modalità completamente “indipendente” tipica dell’hip hop) che in effetti aveva lasciato intendere gli intenti bellicosi; ma in “Scarseez”, beh, la rabbia diventa quasi catartica, sublimata da un approccio ironico che permette alla risata di seppellire tutto ciò che ci fa star male. 

Non c’è censura, non c’è limitazione e allo stesso tempo non c’è eccesso: ciò che in effetti non smette di colpirmi, arrivato al ventesimo ascolto del brano, è proprio l’eleganza e il gusto con il quale Emanuele e Alessio affossano le portaerei avversarie, in una guerra combattuta senza esclusione di colpi ma con la leggerezza della battaglia navale da tavolo; un gioco da ragazzi, insomma, per chi certe ferite se le porta dentro e pare averle rese crepe efficaci a far passare la luce. 

Sempre più curioso di seguire e scoprire ciò che sarà.